Il “liberalismo assediato” e la “strategia di Alesia”

venerdì 26 luglio 2024


Su La Lettura, inserto domenicale del Corriere della Sera del 14 luglio 2024 (anniversario della Bastiglia), tre studiosi con posizioni diverse, Alberto Mingardi, Gaetano Pecora, Mario Ricciardi, sono stati invitati a confrontarsi rispondendo alle domande di Antonio Carioti.
Il titolo del confronto, che prende tre intere pagine del giornale, è a suo modo assertivo piuttosto che dubitativo: “Il liberalismo assediato”. Il sottotitolo, l’occhiello, non lo è da meno: “L’ideologia che pareva trionfare dopo il 1989 adesso è sotto accusa. Molte le critiche che riceve: scarsa o nulla sensibilità sociale, legami troppo stretti con il potere economico, indifferenza ai problemi dell’identità, bellicismo in campo internazionale”. Sarà stata l’intenzione di provocare o semplicemente di stimolare; sarà stata la condiscendenza verso consunti stereotipi; sarà stato un compiaciuto cedimento alla contemporaneità, dalle domande e dalle risposte degli autorevoli studiosi, tutti professori universitari, il liberalismo risulta incolpato, però senza fondamento.

Non potendo qui esaminare, in dettaglio o in complesso, le opinioni che, ripeto, gli studiosi hanno espresso a seguito di specifiche domande, desidero nondimeno commentare, alla stregua di annotazioni marginali, soltanto talune asserzioni che più mi hanno colpito. Le mie osservazioni non sono rivolte in generale al pensiero degli interrogati, ma a qualche punto di vista contenuto nelle loro risposte.

Alla domanda se sia improprio parlare di tirannia del mercato, Mario Ricciardi risponde: “Non esiste il mercato in astratto: esistono tanti mercati tutti disegnati da regole. E la specificità delle politiche neoliberali sta nel definire norme che subordinano gli interessi delle classi meno avvantaggiate a quelli delle aziende”.

In verità la società libera costituisce un mercato di mercati interconnessi, dall’economia concorrenziale alla concorrenza culturale, tutti da regolare mediante il vero diritto (non con paraleggi), cioè mediante norme generali e astratte, destinate a sconosciuti soggetti presenti e futuri. Affermare addirittura che “la specificità” del neoliberalismo (neo, quale sarebbe poi?) consisterebbe nel sottomettere i meno abbienti, i lavoratori, agl’interessi delle aziende, pare un’enormità bell’e buona. Saremmo ritornati ai padroni delle ferriere mentre il lavoro fluisce oggi rapido in silenzio lungo cavi ed onde? Non è stata forse la “libertà dei liberali”, come non mi stanco di chiamarla, a trarre le masse dalla bruta povertà in cui le aveva relegate l’oppressione degli assolutismi politici e religiosi?
Il collettivismo è caduto oppure no per fame?

Al dilemma tra Meloni e Schlein, Alberto Mingardi risponde: “Preferisco la destra, perché è meno costruttivista: vuole difendere l’esistente e non ha l’ambizione di ridisegnare la società. Il governo Meloni scommette su tre grosse riforme (premierato, autonomia differenziata, separazione delle carriere dei magistrati) che sono da tempo nell’agenda di chi immagina un’evoluzione del Paese in senso liberale”. Benché Mingardi sia altrimenti un sincero liberale classico, qui concede troppo perché il costruttivismo non è appannaggio esclusivo della sinistra ma ammalia anche la destra. Quale? La destra definibile “non-liberale”. Il “governo della destra” pare alquanto afono sul sostantivo liberalismo e sull’aggettivo liberale e predilige l’espressione “destra sociale”. Inoltre, mentre la separazione dei procuratori dai giudici è una doverosa quanto tardiva attuazione costituzionale oltreché un basilare principio liberale, il premierato così come già avallato da un ramo del Parlamento è un obbrobrio istituzionale, sbagliato in sé, incoerente con il costituzionalismo, foriero di derive politiche illiberali.

Inoltre, il regionalismo differenziato rappresenta l’antistorica frammentazione dello Stato nazionale e un rigurgito di sovranismo da staterello preunitario. L’autonomia differenziata dovrebbe essere realizzata per gli stessi scopi che l’esperienza del regionalismo ordinario del 1970 e del regionalismo rinforzato del 2001 ha dimostrato fallimentari.

Nel contempo l’Italia, essendone già una regione in ogni senso, è diventata viepiù integrata nell’Unione europea. Allo stato degli atti, nulla fa presagire che premierato e regionalismo contribuiranno ad una “evoluzione del Paese in senso più liberale”.

Gaetano Pecora, pur rimanendo “sospeso al gancio dei principi liberali”, ritiene che rispetto ad essi “le politiche anti-immigrati e quelle egualitarie, se pure per diverse ragioni, riescono egualmente pericolose”. Ed infatti “se si dice no ai migranti, se si adotta un atteggiamento xenofobo, si colpisce di nera censura l’articolo 13 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, là dove viene sancito che ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi Paese, incluso il proprio”.

Al diritto di lasciare il proprio Paese non corrisponde tuttavia il dovere di accogliere chi lo esercita. Il liberalismo, padre dell’umanitarismo politico, e quindi anche dell’asilo politico per lo straniero, viene qui inopinatamente accusato di esserne il fossore (“si colpisce di nera censura”). Il terzo comma dell’articolo 10 della nostra Costituzione stabilisce: “Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”.

Il terzo comma fu vivacemente discusso nell’Assemblea Costituente. Le varie proposte, infine, portarono all’attuale formula concordata. “Devesi pertanto dedurre − scrissero Falzone, Palermo, Cosentino − dallo spirito con cui la norma fu votata che, per l’accertamento del requisito necessario perché sia accordato il diritto d’asilo, si ha riguardo non a ciò che sanciscono la Costituzione e le leggi del paese al quale lo straniero appartiene, ma alla circostanza di fatto che in tale paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana sia impedito”.

Non solo non esiste un obbligo generale di accogliere il migrante che non goda in patria di tutte le libertà italiane, ma la garanzia del diritto d’asilo dev’essere accordata specificatamente dopo accurato scrutinio che egli sia privato di fatto della condizione giuridica equivalente a quella italiana. Il terzo comma, all’evidenza, fu scritto per assicurare un’ancora di salvezza ai perseguitati politici. Se mancano i necessari requisiti costituzionali per il diritto d’asilo, l’accoglienza del migrante costituisce addirittura una violazione della Costituzione al pari delle leggi attuative del terzo comma che legittimano l’accoglienza a prescindere. Confondere il diritto d’asilo con un supposto obbligo di accoglienza porta a stravolgere lo Stato di diritto, atteso che l’immigrazione massiva, difficilmente controllabile, rappresenta una questione aperta sulla quale il realismo politico dovrà esercitarsi al massimo, potendo risolverla in senso liberale o illiberale.

Quanto alla proprietà, per Mario Ricciardi “il cittadino deve avere la possibilità di acquisirla, ma occorre regolamentarla in base alle esigenze generali di equità”. La nostra Costituzione, articolo 42, consente alla legge di determinare “i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti”. L’equivoco della Costituzione sta in ciò, che la proprietà non ha, è una funzione sociale. A misura che i legislatori perseguono una funzione sociale politicamente presunta, la proprietà diventa meno accessibile e più insicura. “Le esigenze generali di equità” sono l’alibi offerto al potere politico per manipolare, in modo discriminatorio, la proprietà a fini elettoralistici.

Alberto Mingardi è impeccabile nel sostenere che “il liberalismo considera le persone come adulti responsabili. Invece nelle nostre società c’è una fortissima tendenza all’infantilizzazione. L’ingresso nell’età adulta viene sempre più ritardato”. La storia comprova che non c’è liberalismo senza indipendenza personale e responsabilità individuale. Altrove ho ripetuto spesso che, se l’abalietà viene spinta oltre un certo limite, la libertà periclita.

Per Mario Ricciardi “il liberalismo non c’entra con la Nato, ch’è un’alleanza militare. Identificare l’uno e l’altra è un segnale di grave debolezza da parte di una cultura liberale a corto di argomenti o sulla difensiva anche in casa propria…È giusto contrastare la Russia, ma non si può pensare di imporle una resa incondizionata”. Sono parole stupefacenti. La Nato è un’alleanza bensì militare, ma tra nazioni democratiche e liberali, sebbene vi possano affiorare dei difetti. Sono nazioni alleate perché amiche, non già amiche perché alleate. Alla Russia che invade e distrugge l’Ucraina non si dovrebbe imporre la resa, la restituzione dei territori occupati, il risarcimento dei danni di guerra? E in base a quale etica illiberale? Sono le nazioni libere e liberali che stanno aiutando concretamente l’Ucraina a resistere eroicamente alla brutale e devastante aggressione di Putin. Questa è altro che debolezza del liberalismo.

Il liberalismo è assediato, non c’è dubbio. Lo è dall’inizio, da quando, prima teorizzato dai pensatori britannici, francesi, americani, poi praticato proprio lì dove dapprima fu teorizzato, infine diffuso nelle società aperte, ebbe contro le forze oscure dell’illiberalismo, che riuscirono a stravolgerlo in teoria e in pratica. Tuttavia, l’assedio del liberalismo non ha portato finora alla vittoria degli assedianti. Come nella “strategia di Alesia”, le forze luminose della libertà, del diritto, della giustizia, il lascito di Maratona alla civiltà occidentale, tengono a bada i nemici interni ed esterni. Nelle parole di Luigi Einaudi, senza “i devoti della libertà” prevarrà “la gente pronta a servire”.


di Pietro Di Muccio de Quattro