La colpa di essere italiani

venerdì 28 giugno 2024


Enrico Mattei sapeva bene che l’Italia non avrebbe più potuto avere l'agio del proprio primato industriale ed economico. A spiegarlo al padre della Snam (cuore dell’Eni) aveva personalmente provveduto Carlo Sforza, l’ambasciatore che rappresentava l’Italia al “Trattato di pace di Parigi”. Questa parte dell'intesa (tra le clausole riservate del Trattato di pace) mandava su tutte le furie il Capo provvisorio dello Stato Enrico De Nicola, che esprimeva piena contrarietà al documento, rifiutandosi di apporre la propria firma. Gli ambasciatori Sforza e Antonio Lupi di Soragna sapevano che l’efficacia era subordinata alla ratifica nell’Assemblea costituente, la firma del capo dello Stato per le potenze vincitrici non aveva alcun valore. Così De Nicola, colto da eccesso d’ira, lanciava per aria tutti i documenti che stritolavano l’Italia.

Perché a Parigi il 10 febbraio 1947, alle ore 11 e 15 minuti nella Sala dell’Orologio del Quai d’Orsay, la diplomazia italiana aveva subito la sempiterna fine dell’Italia come potenza economico-industriale. Tutti i politici dell’epoca sono ormai estinti, ma è evidente che gran parte dei “padri costituenti” considerassero quel trattato una sorta di contratto di colonizzazione, che permetteva a Usa, Urss, Gran Bretagna e Francia d’influenzare le scelte dell’Italia: qui ben si comprende come mai l’occidentale Diccì dovesse trattare con il Pci su ogni lembo d’iniziativa industriale.

I tempi di quel Trattato sono lontani, gran parte degli attuali politici locali e nazionali nemmeno conosce i fatti, ma restano le conseguenze ed i contenuti di quel documento che limita l’agire economico della Repubblica Italiana. Il Paese ha vissuto tutta la durata della Prima Repubblica aggirando le limitazioni industriali ed economiche, inventando multinazionali italiane e favorendo capitani d’industria abilissimi nel produrre ricchezza in barba alle potenze europee e mondiali.

La fine della Prima Repubblica la si deve anche a questo oggettivo problema per i gestori del potere occidentale. Controllo e salasso su industria ed economia sono diventati continui e costanti con il sorgere dell’Unione europea (a Maastricht il primo novembre 1993) giusto un anno dopo il tramonto della Prima Repubblica. Sei mesi dopo la riunione del 2 giugno 1992 sullo Yacht Britannia, la nave ove si consumava il convegno internazionale sulla privatizzazione dell’Italia. Convegno che di fatto ha favorito lo spartiacque tra Prima e Seconda Repubblica, ma anche diviso la classe dirigente tra italiani ed anti-italiani.

Quanto detto in quel convegno veniva riferito allo scrivente dai beninformati dell’epoca: molti di loro ancora in vita, e tutti autorevoli politici della passata Repubblica, come Rino Formica e Aristide Gunnella. Purtroppo, non è più tra noi il professor Giuseppe Guarino, che dell’argomento Britannia e delle promesse fatte alle potenze industriali ne aveva parlato con l’amico giornalista Angelo Polimeno Bottai (ne racconta i particolari nel libro “Alto Tradimento”).

In quel momento di difficoltà, creata dai soliti mercati, all’Italia veniva ricordato d’aver fatto per quasi quarant’anni industria ed economia in barba alle limitazioni imposte dal Trattato di Parigi del ’47. E così i dirigenti italiani, saliti sullo yacht inglese ormeggiato nel porto di Civitavecchia, promettevano Eni, Enel, Finmeccanica e gli asset strategici allo straniero… anzi alle multinazionali inglesi, statunitensi e francesi: perché caduto nel 1989 il comunismo, le multinazionali e le società di capitale tornavano ad operare come le compagnie delle Indie prima della Regina Vittoria.

Il summit sul Britannia dava certamente la stura alla caduta della Prima Repubblica, ed un anno e mezzo dopo divideva gli italiani in berlusconiani ed anti-berlusconiani. Anzi, la divisione diveniva evidente con il confronto tra Silvio Berlusconi e Romano Prodi: il primo reputava probabile riuscire a non regalare i gioielli italiani allo straniero, continuando con le metodiche democristiane degli anni Cinquanta e Sessanta, mentre il secondo era per liberarci di tutte le grandi aziende, reputando i francesi migliori di noi nel metalmeccanico, i tedeschi nel bancario ed inglesi e olandesi nel petrolchimico.

La guerra alle nostre imprese continua, e Ursula von der Leyen siede a Bruxelles anche perché l’Italia mantenga le promesse fatte a francesi (oggi elettori di Macron), tedeschi e olandesi in merito ad asset industriali e altro. A fare quelle promesse non c’erano sul Britannia né l’allora Movimento sociale (poi Alleanza Nazionale ed oggi Fratelli d’Italia) e nemmeno la Lega di Bossi. Di quelle promesse ne era a conoscenza l’entourage di Silvio Berlusconi: anzi la componente craxiana (impersonata da Margherita Boniver, Giulio Tremonti, Fabrizio Cicchitto) aveva messo in guardia il Cavaliere circa le mire della finanza internazionale e le varie promesse fatte dai sostenitori di Romano Prodi.

Silvio Berlusconi è caduto come Bettino Craxi, per essersi opposto ai diktat dei poteri finanziari internazionali. Oggi la stessa congerie venefica attenta al governo di Giorgia Meloni, che nel 1992 non aveva quindici anni d’età. In molti si domandano se Donald Trump possa liberarci dai pesanti vincoli industriali ed economici, casomai sostituendoli con nuovi accordi commerciali. Altri si chiedono se in autunno lo scontro tra Bruxelles e Roma possa dimostrarsi ancora più drammatico per l’economia italiana. Indro Montanelli aveva previsto che, cedute tutte le industrie allo straniero, sarebbero rimasti gli italiani a fare i camerieri, i sarti, i meccanici.

Il compianto amico Arturo Diaconale mi diceva che con una buona politica si sarebbe riusciti a prendere ancora per fessi gli stranieri, ad eludere promesse su asset pubblici e partecipati. Quindi confidiamo nella buona politica, diversamente sarebbe scontro, assedio del Belpaese.


di Ruggiero Capone