venerdì 7 giugno 2024
Nell’anno domini 2024, chiedersi ancora quale sia la collocazione corretta dei socialisti riformisti all’interno del panorama politico nazionale, mi pare un esercizio alquanto pleonastico. Tutt’al più la domanda corretta da porsi dovrebbe essere un’altra: perché la maggior parte dei socialisti ha trovato in Forza Italia la propria Terra promessa? Ebbene, reputo siano due le motivazioni principali. La prima è legata indubbiamente a un meccanismo di reazione, oserei dire comunitario, innescatosi dopo Tangentopoli, cioè un’operazione chirurgica di natura politico-mediatico-giudiziaria che vide l’annientamento del pentapartito (con la salvaguardia della sola corrente progressista della Democrazia cristiana), ovvero il perno sul quale si reggeva l’intero assetto istituzionale della cosiddetta Prima Repubblica. Va da sé che senza più le proprie realtà partitiche di riferimento quel dato elettorato si rifugiò nella nuova creatura nata da un guizzo di follia erasmiana tipica di Silvio Berlusconi. Il Cav ebbe un’intuizione geniale, frutto della sua capacità di analizzare nel profondo la contingenza storica del momento. In sintesi: dopo le macerie del vecchio sistema politico, lasciate dietro di sé da Mani pulite, rimaneva comunque intatto un blocco sociale compatto seppure orfano di un’offerta politica degna di fede. Quella proposta si concretizzò con la nascita di Forza Italia, inizialmente definito come il partito di plastica dai suoi detrattori o, come negli auspici di molti, in primis del suo fondatore, il partito liberale di massa.
A tal proposito, la professoressa Chiara Moroni, in un suo fortunato saggio di qualche anno fa, dal titolo Da Forza Italia al Popolo della libertà (Carocci editore), pubblicò uno studio sulla composizione politica e sociale del movimento azzurro prendendo la regione Umbria come riferimento. Ebbene, i risultati furono evidenti. La maggior parte dell’elettorato proveniva dall’esperienza socialista, seguito da una percentuale inferiore di estrazione democristiana e, infine, da militanti di origine liberale oltre che da neofiti della politica attiva. Non solo. La maggior parte di coloro che giungevano dal Psi, interrogati sul motivo del loro riposizionamento, risposero che quella di Forza Italia era l’unica scelta possibile per sottrarsi definitivamente dall’abbraccio di quella sinistra che aveva avuto un ruolo di primaria importanza, oltre che esiziale, nella consunzione della casa dei socialisti. In senso più ampio, Forza Italia rappresentò uno degli esperimenti maggiormente riusciti di fusionismo italiano, tant’è che al suo interno confluirono quelle che, per una certa ideologia massimalista, venivano considerate delle eresie culturali: parlo del liberalismo di stampo einaudiana, del cattolicesimo popolare di matrice sturziana e, per l’appunto, del riformismo laico-socialista di derivazione rosselliana.
Quest’ultima corrente di pensiero – e qui passiamo alla seconda motivazione di cui sopra – trovò forti ancoraggi concettuali con le altre sensibilità, anche in virtù del prezioso e raffinato lavoro intellettuale portato avanti da autorevoli scienziati della politica, tra i quali spiccava il nome di Don Gianni Baget Bozzo, che era stato molto vicino a Bettino Craxi. Un’altra figura di primaria importanza in ambito culturale è stato (ed è tuttora) Fabrizio Cicchitto, presidente della Fondazione Rel (Riformismo e libertà), già direttore dell’Ircocervo e attuale condirettore di Civiltà socialista. In realtà, si potrebbe continuare a lungo, tanto da poter scrivere un libro sul contributo fattivo e di idee di cui ha beneficiato, in generale, tutto il centrodestra grazie a coloro che, partendo da sponde anche antitetiche rispetto al loro approdo finale, si sono poi avvicinati verso posizioni liberal-conservatrici.
Di certo, nei Governi Berlusconi hanno trovato ampio spazio autorevoli rappresentanti della stagione socialista, basti pensare a Giulio Tremonti, Maurizio Sacconi, Renato Brunetta, Franco Frattini, Stefano Caldoro (a sua volta segretario del Nuovo Psi, partito anch’esso alleato del centrodestra), Gianni De Michelis e molti altri. Difficile individuare una così nutrita e autorevole pattuglia di socialisti nei Governi di centrosinistra. Probabilmente l’esperienza più significativa, ma solo da un punto di vista mediatico dato che, in termini elettorali, l’esito fu assai deludente, avuta dai socialisti nel campo progressista fu la Rosa nel pugno, ovverosia l’accordo politico siglato nel 2006 tra lo Sdi (Socialisti democratici italiani) di Enrico Boselli e il Partito radicale di Marco Pannella che affiancò in maniera organica l’Unione di Romano Prodi. In realtà, la divaricazione irreversibile tra il gradualismo socialista e il massimalismo comunista, e con esso l’unità delle sinistre, si concretizzò molto prima che il Muro di Berlino travolse definitivamente i suoi adepti e i loro antagonisti (nel più classico Simul stabunt vel simul cadent).
Non parlo tanto della scissione livornese del 1921, quanto di un altro episodio più recente, apparentemente meno importante i cui effetti carsici furono però travolgenti. Mi riferisco alla pubblicazione del Vangelo socialista, un saggio apparso sul finire degli anni Settanta a firma di Bettino Craxi (nonostante chi lo redasse in realtà fu Lucio Pellicani). Le tesi contenute in queste righe si dimostrarono dirompenti poiché emergeva l’impellenza di costruire, anche in Italia, una sinistra che non fosse comunista o subordinata al marxismo-leninismo. In pratica, si avviò, sebbene all’inizio prevalentemente sul piano teorico, una sorta di Bad Godesberg, una svolta cioè similare a quella che la sinistra tedesca impresse nella cittadina teutonica nel 1959 abbracciando la socialdemocrazia. A dirla tutta, il socialismo craxiano si dimostrò perfino più audace, anticipando addirittura le istanze analoghe a quelle che, decenni dopo, sarebbero state recuperate perfino dal New Labour di Tony Blair e dai movimenti largamente intesi come lib-lab. Infatti, in quello scritto, all’epoca considerato corsaro da una certa intellighenzia, venne rispolverata la figura di Pierre-Joseph Proudhon mettendo in luce il suo percorso di rielaborazione del paradigma socialista. Cioè la dimensione di una sinistra che vedeva nella proprietà privata non più l’ostacolo per l’emancipazione di moltitudini sociali, ma un elemento dirimente per il benessere individuale e collettivo.
Da qui anche un nuovo approccio nei confronti del capitalismo, inteso come un sistema economico non più da demonizzare in maniera netta ma, in primo luogo, un modello da comprendere e da gestire al fine di tentare la prospettiva di un Terza via. Quindi, per concludere, se può apparire un’anomalia tutta italiana quella di una forza di sinistra che ha trovato il suo ecosistema politico ideale all’interno di una formazione per anni capofila del centrodestra, è anche vero che parole nette e definitive sono state pronunciate da Stefania Craxi, figlia del leader socialista nonché presidente della Fondazione che porta il nome del padre, la quale, nel tentativo di delineare un profilo culturale e identitario di Forza Italia, ha definito quest’ultima uno spazio di libertà nato dal confluire di tre umanesimi, tra cui quello socialista-liberale, aggiungendo, inoltre, che i socialisti rimasti sul campo progressista sono i compagni che hanno abdicato al riformismo per la sottomissione. D’altronde, se il comunismo tout court è ormai un rottame della storia, i partiti che ne hanno raccolto l’eredità presentano ancora dei tratti similari quali il settarismo, il massimalismo e un approccio politico in cui lo statalismo selvaggio è un qualcosa di più di un semplice elemento esornativo.
di Luca Proietti Scorsoni