lunedì 3 giugno 2024
Durante lo svolgimento della Prima guerra mondiale si aggravarono i problemi economico-sociali dell’Italia, ancorché vincitrice, che Giovanni Giolitti aveva temuto e preconizzato. In tale contesto, appare quanto mai significativa l’iniziativa presa dal sovrano nel 1917 per la nascita dell’Opera nazionale combattenti, che distribuì le proprietà di fondi agricoli a decine di migliaia di giovani, i quali al termine del conflitto si sarebbero altrimenti trovati senza lavoro, costituendo potenzialmente una massa da manovra per gli epigoni nostrani della Rivoluzione russa. L’Opera in questione attese a bonifiche capillari nell’intero territorio nazionale, mentre il sovrano, all’indomani della cessazione della guerra, cooperò al più generale risanamento della dissestata economia post-bellica, con un suo personale atto di disposizione, che doveva rivestire un valore di sobria esemplarità. Scrisse infatti al presidente del Consiglio Francesco Saverio Nitti una missiva che fu letta alla Camera l’11 settembre 1919: “Caro presidente – esordì – dopo la nostra grande guerra che ha riunito tutti gli italiani in uno sforzo tenace, dopo le vittorie che hanno dato all’Italia più grande sicurezza e dignità nel mondo, dobbiamo ora riprendere con rinvigorita lena il nostro pacifico lavoro. Un più modesto tenore di vita deve coincidere con un più grande fervore di opere. È mio desiderio che parte dei beni fin qui in godimento alla corona, ritorni al Demanio dello Stato, e quanti costituiscono fonte di rendita, siano ceduti all’Opera nazionale combattenti. L’antico voto di sistemare nel modo più conveniente il patrimonio artistico nazionale, che è tanta gloria italiana, dovrebbe compiersi in questa occasione. I tesori dell’arte nostra potrebbero essere degnamente raccolti in palazzi dei quali fin qui goduto la corona, e che potrebbero essere devoluti all’Amministrazione delle Antichità e Belle Arti. Vorrei, infine, che la lista civile fosse nello stesso tempo ridotta di tre milioni, ferma restando la restituzione allo Stato, che sarà da me operata come nel passato, del milione rappresentante il dovario della mia genitrice. Le sarò molto tenuto, se Ella vorrà formulare questo mio desiderio in un disegno di legge”.
Con Regio Decreto del 3 ottobre 1919 fu pertanto disposta la riduzione di 3 milioni della lista civile, al fine di contribuire al contenimento della spesa pubblica, nonché di rinsaldare le finanze dello Stato e di rilanciare la produzione. Gran parte dei beni dati in uso alla corona, inclusi ville e palazzi reali di notevole pregio storico ed artistico, furono retrocessi al Demanio per finalità di pubblico interesse; mentre tutte le rendite e le terre coltivate già della corona, dovevano essere cedute all’Opera nazionale combattenti: il tutto avvenne con ben 49 decreti attuativi. Gli interventi riduttivi della Dotazione furono il segno di una scelta assolutamente autonoma da qualunque sollecitazione esterna; sicché il Nitti, nell’adempiere al compito di esecutore dei provvedimenti in parola, volle sottolineare la “nobile determinazione che stava alla base di essi”. Il 27 novembre 1921 il ministro della Real Casa Mattioli sottopose alla firma del sovrano il decreto approvativo del Regolamento di Contabilità per l’amministrazione della medesima (numero 169), resa più snella a causa della menzionata retrocessione di gran parte della Dotazione, con conseguente semplificazione contabile, secondo regole destinate a costituire un esempio di sana e corretta gestione di pubbliche risorse.
Tornando all’immediato Dopoguerra, il 19 giugno 1919 cadeva il Governo Orlando, il quale poco tempo prima, a fronte della crisi economica che attanagliava l’Italia e che avrebbe potuto essere alleviata con l’accettazione di aiuti economici quali contropartita alla rinunzia a Fiume, esclamò al cospetto di un’immensa folla plaudente nella Capitale: “I rifornimenti ci mancano, ma l’Italia che conosce la fame, non conosce il disonore!”. La guerra aveva creato due schieramenti contrapposti: gli interventisti (liberali conservatori, socialisti riformisti, nazionalisti) e i neutralisti (liberali giolittiani, cattolici, socialisti), creando un ulteriore fattore di instabilità politico sociale, che avrebbe agevolato, oggettivamente, la svolta totalitaria. Nell’agosto entrò in vigore la nuova legge elettorale, introduttiva del sistema proporzionale, grazie al quale nel successivo mese di novembre si affermarono significativamente i socialisti (155 deputati) ed i popolari (100 deputati), mentre le forze di ispirazione liberale (170 deputati in tutto) apparvero frammentate e notevolmente indebolite nel nuovo assetto parlamentare. La Prima guerra mondiale aveva segnato lo spartiacque più profondo tra il vecchio Stato liberale, fondato sugli equilibri elitari antecedenti all’introduzione del suffragio universale maschile del 1911, e la complessità di un nuovo sistema democratico accresciutasi con la riforma elettorale in senso proporzionale, varata nel 1919 dal Nitti, che rendeva nuovi protagonisti i grandi partiti di massa, come il popolare ed il socialista: non c’era più il sentire omogeneo di un ristretto corpo elettorale espressivo di interessi sostanzialmente unitari. La maggioranza complessiva dei seggi fu conquistata dal Partito socialista e da quello popolare, impossibilitati peraltro ad allearsi data l’incompatibilità dei rispettivi programmi.
In occasione della riforma in questione Nitti, recependo un’istanza espressa in tal senso dal Partito popolare, aveva proposto di consentire il voto anche alle donne, ma il re si era opposto, temendo che lo Stato liberale, oltre a dover fronteggiare la massa d’urto dei socialisti, dovesse confrontarsi anche con un partito cattolico che sarebbe divenuto troppo potente con l’eventuale voto femminile. Dopo l’introduzione del proporzionale, iniziò l’instabilità politica che vide alternarsi in meno di tre anni ben 6 Governi (tre di Francesco Saverio Nitti, uno di Ivànoe Bonomi ed uno di Giovanni Giolitti). Nel 1919 erano nati il Partito popolare di don Sturzo (18 gennaio) ed i Fasci di combattimento di Benito Mussolini (23 marzo), i quali ultimi apparvero come un rifugio per gli emarginati reduci del Dopoguerra, che non avevano trovato possibilità di un proficuo reimpiego nella vita civile, o che addirittura erano stati oggetto di vituperio da parte dell’estremismo socialista nel Nord Italia, dal quale Turati con i suoi Riformisti aveva preso nettamente le distanze. La caccia ai Carabinieri ed agli ufficiali da parte dei fautori della dittatura del proletariato, in seguito alla reiterazione di siffatti episodi venne denunziata con estrema fermezza in un articolo di fondo del direttore del Corriere della Sera, Luigi Albertini. Il caos economico-sociale indusse Gaetano Salvemini ad asserire che la riforma elettorale a suo tempo voluta da Giolitti, era stata equivalente ad un “lauto pasto servito di prima mattina”; quindi invece di essere un momento importante per l’ascesa della democrazia, si sarebbe rivelata esiziale per la tenuta della stessa.
All’ingresso del sovrano in Parlamento all’inizio della nuova Legislatura, il 1° dicembre 1919, i socialisti batterono delle tavolette sui banchi, gridando “Viva la Repubblica socialista!” e lasciarono la Camera con studiata lentezza. Nel primo Discorso della corona pronunziato proprio in quella occasione, il monarca affermò che al di sopra della vittoria si ergeva la giustizia, presupposto di una pace nella quale tutte la parti in causa, vincitori e vinti, dovevano trovare risposta al medesimo bisogno di lavoro e di serenità. Entrando nel merito dei problemi sociali, fece appello al “patriottismo delle classi agiate”, per un’azione del Parlamento che doveva orientarsi prioritariamente al problema dell’occupazione. Nel frattempo la Conferenza di Versailles (1919-1920) avrebbe alimentato presso significativi settori dell’opinione pubblica, l’idea della “vittoria mutilata”, per il mancato riconoscimento all’Italia di alcuni territori come Fiume, che venne “abusivamente” occupata da Gabriele D’Annunzio. Le conseguenze economiche del conflitto non tardarono a manifestarsi in quel travagliato dopoguerra, fino ad arrivare alle forme più estreme delle cosiddette “Settimane rosse”, con scioperi e occupazioni delle terre, cui seguì, nel 1920, quella delle fabbriche. Nel giugno 1920 usciva di scena Nitti, nel cui ultimo Gabinetto il re avrebbe volentieri inserito i socialisti, secondo una testimonianza postuma resa proprio dal Nitti nel 1928 nel suo libro la Disgregazione dell’Europa: “Il re – scrisse l’autore – mi espresse più di una volta il desiderio di vedere i socialisti con me al Governo, perché sperava ritrasformarli, così, in elementi di ordine e di incanalare la loro azione in un movimento di riforme democratiche”.
Filippo Turati e Claudio Treves, purtroppo, non riuscirono a “smarcarsi” dai comunisti, come già era accaduto all’inizio del secolo, quando Giolitti aveva vanamente cercato di coinvolgerli nella compagine governativa. I cattolici di don Sturzo, a loro volta, avevano cagionato la caduta di due governi Nitti, per cui i due nuovi partiti di massa ebbero le loro responsabilità storiche e politiche nell’aver cooperato a determinare quella situazione di fragilità politica, che costituì l’humus ideale per la successiva svolta totalitaria. A Nitti successe il 15 giugno 1920 Giolitti, che scelse la linea a lui congeniale della prudenza, nonostante le pressioni degli industriali per sgomberare le fabbriche con l’esercito. In merito all’avanzata del fascismo dopo le aggressioni dell’estrema sinistra che avevano sconvolto il Paese nel 1919, lo statista di Dronero rilevata la “priorità temporale” delle seconde, rilevò che i comunisti avevano cominciato e che conseguentemente “trovavano chi replicava”. Tuttavia la tensione sociale, malgrado taluni effetti positivi dell’intermediazione giolittiana, come la riapertura pacifica delle fabbriche, restava altissima, per cui sotto le ceneri di non sopiti fermenti sociali, contestuali all’indisponibilità del Partito socialista ad assumere dirette responsabilità di Governo, covarono gli aneliti di una rivolta in grande stile.
Il 15 maggio del 1921 Giolitti si rivolse nuovamente agli elettori, ma la scelta si rivelò avventata, in quanto aumentò la frammentazione delle forze politiche in campo, tra le quali esordì il Partito comunista d’Italia (PCd’I), nato da una costola del socialismo massimalista. Nello stesso anno (il 7 novembre) i Fasci di combattimento venivano trasformati nel Partito nazionale fascista. Nell’arco di soli tre mesi di quel travagliato 1921, gli scontri tra le opposte fazioni avevano cagionato 350 morti e un migliaio di feriti. Nel discorso dell’11 giugno 1921, il sovrano, presagendo l’avvicinarsi della tempesta incombente sul Paese, esortò il Parlamento a “rafforzare gli istituti cooperativi, per suscitare nuove forme di lavoro associato e consentire alle classi operaie di abilitarsi gradualmente al difficile Governo dell’attività economica”; mentre in merito al tema dell’istruzione, a lui particolarmente caro, sottolineò che “l’educazione intellettuale e morale di un popolo è la virtù che preserva le democrazie dal cadere negli errori della demagogia”. Aveva dunque preconizzato la china che stava prendendo il Paese, ma ciò non sarebbe bastato ad arginarne la frana, in una crisi politica senza precedenti dai tempi dello Statuto. Il 4 luglio del 1921 cadde l’ultimo Governo Giolitti, che aveva presentato un disegno di legge mirante a riformare l’articolo 5 dello Statuto, spostando dal sovrano al Parlamento il potere di approvare i trattati e gli accordi internazionali, nonché di dichiarare guerra. Se quella riforma fosse stata approvata – ma la storia non si fa con i “se” – il re sarebbe stato “depotenziato” da ogni decisionalità, ma anche da qualsivoglia correlata imputabilità nei riguardi della successiva partecipazione italiana alla Seconda guerra mondiale.
Viceversa, il permanere di tali poteri (peraltro sempre più de jure e sempre meno de facto, a far data dalla svolta fascista del 1925), ne confermò comunque l’imputabilità giuridica e morale al cospetto della Storia. Dando retta a Giolitti, avrebbe invece salvato se stesso e la monarchia dagli esiti di un’alleanza nefasta col il nazifascismo e, quindi, di una guerra perduta. Fu varato un nuovo Esecutivo a guida Bonomi, che restò in carica sino al 26 febbraio dell’anno successivo, per passare poi il testimone a un ministero presieduto dal giolittiano Luigi Facta, che durò sino al 1° agosto 1922, in una situazione di grave, perdurante instabilità politica e sociale. Quello stesso 1°agosto le sinistre avevano proclamato uno sciopero generale contro il fascismo, che non ebbe l’adesione auspicata, ma allarmò comunque il ceto medio innanzi al fantasma delle astensioni dal lavoro di due anni prima. La crisi economica si era tramutata in un diffuso malcontento politico, e il fascismo, alternando il bastone delle violenze squadriste con la carota del prospettato ripristino dell’ordine sociale, si proponeva come garante di una ritrovata tranquillità per la maggioranza delle persone comuni, desiderose solo di poter vivere in pace, ponendosi fine ad una guerra civile strisciante. Nell’ottica legalitaria, Mussolini il 4 aprile 1922 al Teatro lirico di Milano aveva annunziato di voler inserire il suo movimento nella dialettica parlamentare, rendendosi disponibile alla partecipazione di un Governo con i liberali.
Il 29 luglio il deputato socialista Ettore Ciccotti in una lettera al Giornale d’Italia propose che si conferissero al sovrano poteri decisionali analoghi a quelli del presidente degli Stati Uniti almeno per un anno, mentre alla Camera tutti i gruppi, compreso quello di sua appartenenza, dovevano registrare uno spostamento dell’opinione pubblica sempre più a destra. Da ciò è dato arguire che anche la Sinistra riformista vide alla fine nel monarca, l’estrema risorsa per riportare ordine nel Paese, tentando di scongiurare tracimazioni dittatoriali. Alla medesima data del 29 luglio fu lo stesso onorevole Turati a salire al Quirinale, per annunziare ufficialmente che il gruppo socialista, adunatosi con urgenza, aveva deciso di non “arrestare davanti ad alcuna azione”, purché del nuovo Esecutivo non facessero parte esponenti della destra. Il re aveva vanamente incaricato, in successione, vari esponenti di spicco del mondo liberale per la formazione di un nuovo Governo: Enrico De Nicola rifiutò; Vittorio Emanuele Orlando cercò di varare un Governo (che oggi definiremmo di “larghe intese”) inclusivo dei socialisti riformisti e dei fascisti, ma Turati non si rese disponibile; Giolitti dovette viceversa prendere atto della contrarietà dei popolari; Bonomi trovò a lui contrari i socialisti. Alla fine fu incaricato Facta, che ottenne la fiducia il 22 agosto del 1922, e rimase in carica sino al successivo 28 ottobre, guidando l’ultimo Esecutivo dell’Italia liberale. Il 16 ottobre Mussolini, fallite le trattative tra i fascisti ed il Governo Facta, profilandosi l’ipotesi di un nuovo Esecutivo a guida Giolitti, confidò a Cesare Rossi: “Se Giolitti torna al potere, siamo fottuti”. Ed ancora: “Bisogna impedire a Giolitti di andare al Governo. Come ha fatto sparare su D’Annunzio, farebbe sparare sui fascisti. Soltanto la conquista diretta del potere può essere considerata una soluzione degna del nostro movimento, che ha agito al di fuori e al di sopra delle leggi in un regime decrepito”. Il futuro Duce temeva anche che il fattore “tempo” potesse giocare contro di sé, in quanto se il ministero Facta fosse riuscito a sopravvivere fino alla solennità del 4 novembre, evocativa della vittoria della Prima guerra mondiale, appellandosi in tale occasione al sentimento dei Reduci in chiave antifascista, il fascismo avrebbe perso ogni speranza di presa del potere; pertanto decise di rompere gli indugi, facendo riservatamente conoscere a Vittorio Emanuele III la sua disponibilità a sostenerlo, purché in un’ottica di reciprocità.
Altrimenti – minacciò – avrebbe appoggiato l’ascesa al trono del giovane Umberto, con la reggenza del Duca d’Aosta. Il 17 ottobre i socialisti ed i cattolici, ormai “in articulo mortis”, tentarono di salvare il salvabile, per cui Soleri scrisse a Giolitti che un gruppo di 50 socialisti riformisti guidati da Turati erano pronti ad appoggiare un Governo da lui guidato, purché senza i fascisti; per converso il cardinale Gasparri, entrato in dissidio con don Luigi Sturzo, fece sapere di non essere più contrario ad un Governo liberale, purché venisse garantito il mantenimento del sistema elettorale proporzionale. A quella stessa data, a fronte di una pregressa disponibilità manifestata da Mussolini a far parte di un Esecutivo a guida dello statista di Dronero, quest’ultimo venne informato con lettera riservata dello Stato maggiore dell’esercito, circa le reali intenzioni dell’interlocutore, che in realtà escludevano la disponibilità apparentemente manifestata, mirando l’agitatore romagnolo ad un vero e proprio “colpo militare” per assumere egli direttamente il potere. Il 18 ottobre la regina madre, Margherita, ricevette i quadrumviri Emilio De Bono e Cesare Maria De Vecchi, augurando loro ogni successo per il bene della Nazione ed assicurando loro che – al contempo – avrebbe cercato di sensibilizzare il figlio sull’importanza del movimento fascista. Nelle more, l’instabilità economica venutasi a determinare in conseguenza a quella politica, fece precipitare il valore della lira al cambio con la sterlina. Il re, che aveva ben compreso il pericolo di una deriva totalitaria, chiese a Facta di convocare il Parlamento, ma questi temporeggiò favorendo con la sua irrisolutezza il precipitare degli eventi, di cui fu tuttavia corresponsabile anche Giolitti, rimasto in fatalistica attesa ad aspettare l’evolversi della situazione, nella quiete ormai surreale della sua Cavour. Quando si decise a partire, era ormai troppo tardi, poiché i fascisti avevano occupato alcune tra le principali stazioni ferroviarie, rendendo impossibili i collegamenti per la Capitale.
Aveva creduto, purtroppo per le future sorti dell’Italia, di potersi comportare secondo collaudati schemi tattici che avevano funzionato durante le crisi di fine Ottocento, come durante gli scioperi del primo ventennio del nuovo secolo; ma sottovalutò le potenzialità eversive del nuovo interlocutore romagnolo. Il 24 ottobre Mussolini – pur affermando di voler conservare l’istituzione monarchica – dette l’annunzio dell’inizio della programmata rivolta, che avrebbe preso l’avvio con la “marcia su Roma”, evocativa di una vecchia idea di D’Annunzio, peraltro pronto a venire a Roma per contrastare le camice nere. Mussolini procedette intanto tra il 27 ed il 28 a far occupare prefetture e municipi, centrali telefoniche e telegrafiche, e altri snodi strategici, ricorrendo al bluff propagandistico di esagerare, a scopo intimidatorio, il numero delle postazioni istituzionali occupate e le forze a sua disposizione, mentre poteva contare al massimo su 25mila uomini. Gli organi periferici dello Stato, per converso, innanzi all’esuberanza tracotante degli eversori, brancolavano nel buio circa le misure da prendere, data l’irrisolutezza di un Governo che diramava solo disposizioni incerte e contraddittorie. Il 26 Facta richiamò nella Capitale il sovrano da San Rossore, per rassegnare nelle sue mani le dimissioni dell’intero Governo, che pur essendo conseguentemente depotenziato giuridicamente, avrebbe provveduto – nell’emergenza venutasi a determinare – ad approntare reticolati, piazzare cannoni e mitragliatrici ed a schierare truppe a Roma. La sera del 27 Vittorio Emanuele III trovò ad attenderlo alla stazione Termini il presidente del Consiglio, e si intrattenne con lui in riservato colloquio per circa 20 minuti nella saletta reale della Stazione.
Verso le 3 di notte del 28 un funzionario della Presidenza del Consiglio si precipitò a destare Facta per informarlo che arrivavano telegrammi da tutti i prefetti: i fascisti attaccavano le prefetture, gli uffici telegrafici, gli uffici pubblici e stavano occupando ponti stradali e ferroviari. A mezzanotte controllavano già buona parte della pianura padana, nonché cittadine importanti del Centro-Italia, mentre a Napoli un Reggimento aveva fraternizzato con le camice nere. Quattro loro colonne, militarmente inquadrate, stavano dirigendosi sulla Capitale. Facta si recò immediatamente al Ministero della guerra e al Viminale, dove si consultò con alcuni ministri, determinandosi a proclamare lo stato di assedio per contrastare l’insurrezione in atto, sicuro del “via libera” del re. Il generale Arturo Cittadini, primo aiutante di campo di quest’ultimo, nel cuore della notte aveva riferito a Facta la determinazione ad abdicare del sovrano, qualora non fosse stata dichiarata detta misura straordinaria. Alle 8.30 a Roma fu pertanto affisso il relativo proclama del Governo, mentre il generale Emanuele Pugliese, comandante militare della Capitale, assicurava al ministro dell’Interno Paolino Taddei di essere in grado di garantirne la difesa con i suoi 28mila uomini; Pietro Badoglio, a sua volta, dichiarava di essere pronto a sparare sulle milizie fasciste quelle poche raffiche di mitragliatrice che sarebbero state sufficienti a respingerle. Per converso, la proclamazione della programmata misura emergenziale, aveva suscitato le perplessità del generale Armando Diaz, ministro della Guerra e dell’ammiraglio Paolo Thaon di Revel, titolare della Marina, appositamente convocati dal Re, i quali lo avevano avvisato che nell’eccezionale provvedimento prefigurato, le forze armate avrebbero fatto il loro dovere, ma che era meglio non metterle alla prova. Pesava – tra l’altro – il precedente di alcuni reparti che, inviati a Fiume per reprimere la rivolta, erano passati dalla parte di D’Annunzio. Alle 9 Facta si recò al Quirinale per la firma regia del Decreto proclamante lo stato di assedio; ma l’interlocutore gli rispose sorprendentemente che un Governo dimissionario non aveva l’autorità per proporre un provvedimento di quella portata. Nel frattempo, erano stati sufficienti 600 Reali Carabinieri a bloccare le bande fasciste giunte a 60 chilometri. Da Roma!
Vogliamo qui ricordare che – assai meno motivatamente – in occasione dei tumulti del ‘94 e del ‘98, con Regio decreto era stato proclamato lo “stato di assedio”, disinvoltamente equiparato allo “stato di guerra,” oggetto solo quest’ultimo di specifica previsione statutaria; ma l’ardita estensione analogica, aveva avuto l’autorevole e compiacente avallo della Cassazione. In punto di diritto, innanzi alla prospettiva ora di una vera e propria guerra, e tale era quella civile che si andava profilando, se il sovrano lo avesse voluto, nel 1922 avrebbe potuto tenere presente – e con ben altro e motivato titolo – proprio quel precedente, per mobilitare dei reparti di assoluta fedeltà delle forze armate (quali i Granatieri di Sardegna e i Carabinieri), contro il movimento eversivo delle Camice Nere. Né occorreva ricorrere a quelle arditezze interpretative dell’articolo 5, che avevano reso possibile la repressione dei citati moti, dovuti non a disegni rivoluzionari, bensì ai morsi della fame di un proletariato tumultuante, di cui Giolitti aveva ben compreso le ragioni. Vittorio Emanuele III avrebbe potuto ancora avvalersi di quell’articolo 5 dello Statuto di cui Giolitti – come ricordato – aveva vanamente chiesto la riforma, per debellare ora il fascismo, che la guerra gliela stava muovendo dentro casa; ma dopo aver fallito un estremo tentativo per un Governo di coalizione comprendente anche Mussolini ed a guida di Antonio Salandra, innanzi al rifiuto del futuro Duce di entrarne a far parte come semplice “condomino”, si risolse a convocarlo a pieno titolo come primo ministro, attraverso l’ufficialità formale di un telegramma, condizione espressamente posta dall’interessato. Il re che non ritenne di ricorrere al “grimaldello” dell’articolo 5 dello Statuto per riprendere in mano la situazione, proprio a causa di tale articolo si sarebbe trovato ad essere comunque giuridicamente corresponsabile dell’infausta decisione, adottata da Mussolini, di entrare in guerra al fianco dei tedeschi. Il rivoluzionario romagnolo, ora nella rassicurante veste di uomo delle istituzioni, si presentò il 30 ottobre al Quirinale in camicia nera, recando al sovrano “il saluto dell’Italia di Vittorio Veneto”. Sicché quelle milizie che pochi giorni prima erano state approntate per prendere il potere manu militari, sfilavano ora sotto i balconi del Quirinale rendendo omaggio al re già obiettivo dell’ideato “golpe”, mentre questi, a sua volta, doveva assistere ad una farsa nella quale tutti erano protagonisti di un copione improvvisato all’ultimo momento.
Mussolini avrebbe affermato, con autocompiacimento, che il suo era stato “il primo esempio, non solo italiano, ma europeo, di una rivoluzione senza rivolta”. Egli fu così abile ad approfittare delle incertezze della vecchia classe politica liberale e della monarchia , che giunse – sono parole di Italo Balbo – a “fare la rivoluzione per telefono”, dopo aver contattato i notabili che non erano riusciti, attraverso un’ordinaria dialettica democratica, a formare quel nuovo Governo di coalizione cui alla fine divenne proprio lui il Capo, ma avvalendosi sino all’ultimo di intimidazioni da codice penale, che avrebbero dovuto portarlo in galera invece che al Viminale. Mussolini non risultò giuridicamente un dittatore per l’assunzione di un potere sine titulo – ipotesi che avrebbe potuto verificarsi se con la cosiddetta “Marcia” fosse riuscito a portare a termine un colpo di Stato – bensì quoad exercitium, almeno a far data dalla svolta del 1925. Uomo di profonde ed insondabili contraddizioni, Vittorio Emanuele III, dal canto suo, il 26 gennaio del ‘41, in un momento di sconforto retrospettivo, avrebbe poi confidato al fedelissimo aiutante di campo, generale Puntoni, le ragioni che lo avevano spinto ad accettare l’avventura fascista: “Nel ‘22 – disse – ho dovuto chiamare al Governo quella gente, perché tutti gli altri, chi in un modo, chi nell’altro, mi hanno abbandonato. Per 48 ore io in persona ho dovuto dare ordini direttamente al questore ed al comandante del Corpo d’armata, perché gli italiani non si ammazzassero tra di loro”. Del nuovo Esecutivo entrarono a far parte fascisti, liberali, popolari, democratico – sociali e socialisti-riformisti, dando l’avvio ad un periodo di stabilità sociale con la cessazione dei tumulti e la ripresa delle attività produttive, il calo dell’inflazione, l’eliminazione del debito pubblico, ed una drastica contrazione delle spese. L’apparenza di ritrovata normalità trovò pertanto autorevoli consensi, come quello di Benedetto Croce, Alcide De Gasperi, Giovanni Gronchi, Luigi Einaudi, e dello stesso Giovanni Giolitti.
Non si poteva parlare ancora in quel momento di regime liberticida, anche perché su 535 deputati eletti, quelli fascisti erano appena 35 e non avrebbero avuto la forza dei numeri per divenire forza egemone. Il monarca si rimise alla volontà del Parlamento, che si espresse a favore del nuovo Esecutivo il 17 novembre, con 306 voti favorevoli, 116 contrari e 7 astenuti alla Camera; 186 favorevoli e 19 contrari al Senato. Il 12 maggio1923 Turati fu primo firmatario della “Petizione in difesa della proporzionale e della Costituzione”, innanzi al progetto della legge Acerbo (poi approvata il 18 novembre 1923), che avrebbe segnato un’ulteriore tappa nella marcia verso lo Stato totalitario. Detta legge statuì che la lista che avesse ottenuto il maggior numero di voti, con un livello minimo di almeno il 25 per cento (emblematico dello scarso ottimismo di Mussolini circa la consistenza della coalizione da lui guidata), avrebbe avuto alla Camera i due terzi complessivi dei seggi; ma il riscontro delle urne nel 1924 fu per lui ben più lusinghiero, grazie alla massiccia adesione di gran parte dell’elettorato moderato che, desideroso di un ritorno comunque all’ ordine nella vita quotidiana, premiò quell’aggregazione con il 65 per cento dei consensi e 356 deputati, contro i 40 dei popolari, i 47 dei socialisti, i 18 dei comunisti ed i 45 degli altri partiti. Mussolini subito dopo l’esito delle votazioni aveva preso in considerazione il coinvolgimento nel Governo di qualcuno degli antichi compagni, guardando alla Cgil ed al Psu, onde scongiurare l’eventualità di un’intesa tra cattolici e liberali che, in un secondo momento, avrebbe potuto travolgerlo; ma il caso Matteotti vanificò tutto. Convocata la Camera, il socialista riformista Giacomo Matteotti, capo del menzionato Psu, in cui militavano anche Turati e Treves, era stato invitato insieme ai socialisti massimalisti a fare un blocco unitario con i comunisti, ma aveva risposto con la celebre frase “Noi combattiamo contro il fascismo per la libertà: non possiamo combattere contro il fascismo in nome di un’altra dittatura”.
Matteotti, che aveva condiviso al pari di Piero Gobetti le istanze operaie del cosiddetto “biennio rosso”, quali legittime rivendicazioni economiche e normative, e non come anticamera della rivoluzione comunista, si era reso inviso al Regime non solo per il discorso pronunciato alla Camera dieci giorni prima, per l’annullamento di elezioni considerate inficiate da brogli e dalle violenze fisiche degli squadristi, ma anche perché era in procinto di denunciare un caso di affarismo e di sottogoverno, concernente l’autorizzazione che il Ministero avrebbe concesso ad una compagnia petrolifera americana per la ricerca del greggio in Italia. Dopo aver tenuto un’appassionata orazione contro i brogli verificatisi durante la tornata elettorale, il 10 giugno il coraggioso parlamentare venne rapito ed ucciso. Appare peraltro incongruo, alla luce di quanto per sommi capi riferito, che Mussolini fosse stato il mandante dell’assassino, in merito al quale non può escludersi che quella che in origine doveva essere una “lezione” per il discorso del leader riformista, si risolse in un omicidio preterintenzionale. Sembrerebbe poi oltremodo strano che, avendo disposto Mussolini l’assegnazione di un vitalizio in favore dei familiari del deputato assassinato, costoro lo avessero accettato se avessero ritenuto il Duce il vero mandante dell’impresa criminale. Che questo delitto potesse avere altre chiavi di lettura, fu sostenuto da Matteo Matteotti, figlio dello scomparso, il quale nel corso di un’intervista rilasciata il 27 luglio 1985 ad Antonio Landolfi, dichiarò che il padre era stato rapito e poi assassinato proprio il giorno che stava portando alla Camera la citata documentazione probatoria di loschi affari finanziari (il caso Sinclair), cui non sarebbe stata estranea la stessa corona. L’onorevole Matteo Matteotti dichiarò che “il Duce non aveva alcun interesse a farlo uccidere: si sarebbe alienato per sempre la possibilità di un’alleanza con i suoi vecchi compagni, che non finì mai di rimpiangere”. Riguardo al presunto coinvolgimento della corona, il più autorevole storico della monarchia, Aldo Alessandro Mola, ha esaustivamente fugato ogni verosimiglianza di tale ipotesi, sottolineando, al contempo, la grossolana imperizia di quattro scalzacani che, nel portare a termine la vile aggressione, avevano lasciato tante tracce da essere poi facilmente identificati.
La pista di compromissioni istituzionali con i petrolieri, riguardava più verosimilmente alcuni fascisti come il sottosegretario all’Interno Aldo Finizi, mirante a far ricadere sul Duce la responsabilità dell’accaduto. Vero è che dopo il delitto in parola, Mussolini aveva gridato alla Camera: “Solo un nemico che da lunghe notti avesse pensato a qualcosa di diabolico contro di me, poteva effettuare questo delitto che ci percuote di orrore e ci strappa grida di indignazione”. Da quel momento caddero comunque le illusioni di coloro che avevano sperato in una democratizzazione del movimento fascista; ma l’opposizione, guidata dal liberale Giovanni Amendola, non seppe far di meglio che ritirarsi in un ideale Aventino, nella speranza di un intervento della Monarca, che rimase tuttavia “alla finestra”. Al citato Finzi, che gli aveva portato un dossier sulle responsabilità di Mussolini sul fattaccio, il Re oppose il rifiuto a prenderne visione, dicendo: “Io sono cieco e sordo. I miei occhi e le mie orecchie sono la Camera e il Senato”. Non ebbe miglior fortuna l’esortazione rivolta al monarca da Giolitti di “prendere in mano la situazione”. L’anziano statista, con la consueta lucidità, considerò la secessione aventiniana come un errore ed una manifestazione di viltà, laddove un ben diverso effetto di incisività istituzionale e politica avrebbero avuto delle dimissioni rassegnate in massa dai Deputati, con il conseguente e non eludibile intervento da parte della corona (che in tal caso non avrebbe potuto esimersi dal tenere occhi ed orecchie bene aperti, ndr).
Giolitti avrebbe sconsolatamente poi annotato, a commento dell’accaduto: “L’onorevole Mussolini ha tutte le fortune. A me l’opposizione ha sempre dato fastidi e travagli, con lui se ne va e gli lascia il campo!”. Carlo Sforza e Ivànoe Bonomi riuscirono a farsi ricevere dal monarca con un copioso carteggio probatorio delle illegalità commesse dalla camice nere, ma l’interlocutore si rifiutò di leggerlo, trincerandosi dietro una protocollare freddezza. Dopo la “secessione” il presidente della Camera, Alfredo Rocco, ne aggiornò i lavori sine die. Il 17 giugno, a distanza cioè di 5 giorni dall’Aventino, Mussolini incontrò Vittorio Emanuele III, ed il 24 si presentò al Senato per ottenerne il voto di fiducia, accordatogli con il 90 per cento dei consensi. Il 26 giugno addirittura Croce promosse e votò una mozione a favore del nuovo Governo, definendo “prudente e patriottico” tale voto. Il Governo ebbe la fiducia anche dalla Camera, tornata a riunirsi il 12 novembre, ma si trattava di un’Assemblea dove l’opposizione (ad eccezione di quella dell’esiguo gruppo comunista, dei massimalisti e di alcuni liberali) era ormai contumace. Il 5 luglio 1924 Frassati nel trasmettere a Giolitti una riservata di Sforza, informò il destinatario che nel caso di un nuovo Governo da lui guidato, avrebbe dovuto essere “un ministero di pienissimi poteri, con lo stato di assedio larvato, con molto elemento militare”. Le opposizioni tutte ora lo volevano, mentre le associazioni dei mutilati e dei combattenti avevano preso le distanze dal regime; ma ormai era troppo tardi per arrestare quello che Dante avrebbe potuto chiamare “il folle volo del fascismo”. Giolitti aveva architettato un estremo piano per fare tornare in Parlamento i secessionisti aventiniani: provocare una crisi di Governo e riportare il Paese alle urne, ma i dissidenti non si mossero, sino a quando non ne venne dichiarata la decadenza dal mandato parlamentare.
Il 25 novembre il Parlamento giunse a deliberare la concessione di pieni poteri all’Esecutivo, per “risolvere liberamente, senza le difficoltà della procedura parlamentare, i più urgenti problemi della finanza e della Pubblica amministrazione”. Dopo la crisi seguita a quell’omicidio, che segnò lo spartiacque fra coloro che presero le distanze dal movimento fascista e quanti continuarono a sostenerlo, il condominio tra il vecchio ed il nuovo – cioè tra ciò che restava dello Stato liberale e l’inedita configurazione totalitaria, figlia della concezione hegeliana comune al Nazismo ed al Comunismo – iniziò a subire delle crepe al suo interno. Il 3 gennaio del 1925, quando Mussolini rivendicò la sua responsabilità politica e morale del delitto Matteotti, si prefissò di instaurare per la prima volta la dittatura con un colpo di mano. Infatti il giorno successivo si recò dal re con un Decreto di scioglimento del Parlamento, che contemplava anche l’arresto di tutti i deputati dell’opposizione; ma il sovrano si rifiutò con grande energia. Fu il canto del Cigno della democrazia, fu l’ultimo sussulto di regale orgoglio innanzi all’onda nera che avanzava impetuosa e che avrebbe travolto l’istituzione monarchica, trascinandola nei fondali di un’ingloriosa connivenza; mentre l’evocato discorso di Mussolini fu il vero dies a quo della dittatura. Il 4 gennaio l’onorevole Amendola, essendo stato informato dell’intenzione del sovrano di allontanare Mussolini, riservatamente manifestata la settimana precedente, scrisse al Quirinale in questi termini: “Sorga fieramente il re, poiché ove la restaurazione istituzionale non diventi immediatamente un fatto compiuto ,di fronte all’aggressione di stile che il Governo fascista sta muovendo in quest’ora contro lo Statuto e contro gli istituti che in esso trovano fondamenta, la nostra battaglia costituzionale minaccia di naufragare in uno storico fallimento”.
Anche Turati tornò a sperare ed il 6 gennaio, riferendosi al capo dello Stato, commentava: “L’ometto sta in agguato”. Intanto, Mussolini cadeva ammalato e Vittorio Emanuele III rispondeva a coloro che ne chiedevano la rimozione: “Offritemi un patto costituzionale. Preparate una successione. Assumete le vostre responsabilità e la corona si assumerà le proprie”. Purtroppo anche in questa circostanza, come nel 1922 – ma ora con l’aggravante di un Parlamento tenuto a fronteggiare non più un pericolo eventuale, bensì reale – il “signor Savoia”, come sprezzantemente lo chiamava in segreto il Duce, si trovò nel dramma della solitudine di un monarca costituzionale che non poteva fare affidamento sulle forze costituzionali. Il 14 gennaio Mussolini, rimessosi in salute, approvò un blocco di decreti-legge che, di fatto, costituirono l’eutanasia dello Stato liberale, nel mentre nasceva, con sinistri vagiti, la creatura sulfurea dello Stato totalitario, destinata ad irrobustirsi con la cura ricostituente delle cosiddette “leggi fascistissime” varate l’anno seguente.
di Tito Lucrezio Rizzo