martedì 21 maggio 2024
Nel mondo del giornalismo, e non solo, c’è un problema di deontologia professionale, che, ovviamente, riguarda anche gli editori, perché sarebbe da idioti credere che le redazioni non siano influenzate dagli interessi legittimi degli editori, i quali hanno interesse a vendere o ad avere maggior share nelle loro trasmissioni per ottenere maggior pubblicità.
Nel giornalismo cartaceo questo bisogno di aumentare le vendite si manifesta, il più delle volte, con titoli che devono determinare sensazione nel caso più banale o essere l’indicatore di una linea politica, si perché tutti i giornali fanno politica, chi con più obiettività e chi meno. Giornali indipendenti non esistono, al massimo ci sono giornali o trasmissioni che danno voce alle varie parti in causa, ma anche qui esistono i trucchi del mestiere per condizionare le opinioni.
In questa Seconda Repubblica, dove si è realizzato il pensiero manicheo grazie al maggioritario, è più facile per il lettore comprendere l’orientamento del quotidiano che si legge, a volte è anche dichiarato visto che sono spariti i quotidiani di partito. La semplificazione del pensiero, che da anni si sta realizzando nel Paese, comporta pregi e rischi, i pregi dovrebbero essere la chiarezza dello schieramento, (anche se io non ne vedo l’utilità culturale, in quanto conta ciò che si esprime e non l’appartenenza) il rischio è che questa chiarezza nasconde la necessità identitaria, come avviene nel web tramite l’algoritmo che visualizza ripetutamente argomenti che vengono ricercati, magari casualmente, e quindi rinforza ciò in cui si vuole credere e ciò uccide il pensiero critico.
Secondo molti scienziati della comunicazione la realtà è fatta da ciò che conosciamo, e se le cose che conosciamo o che ci vengono dette sono parziali o, peggio, fake news, noi inconsapevolmente diventiamo persone, in buona fede, suddite di volontà altrui. Di norma in quest’epoca di profondi cambiamenti sociali dovuti alla presenza dell’universo digitale, più che educare, e dunque spiegare, si predilige il voler cambiare la società mediante un approccio etico che prevede la modifica del linguaggio, dare senso ideologico alle parole o, peggio ancora, cercare di estirpare i sentimenti non nobili. Si può estirpare l’odio? No, perché è un sentimento umano e i sentimenti non si possono estirpare, ma solo educare a gestirli, così è per la rabbia, la gelosia e l’invidia. I media e la politica tendono a polarizzare tutte le questioni, obbligando chi ascolta a stare da una parte con l’obbiettivo di dividere gli elettori con messaggi divisivi e contemporaneamente manipolare la realtà dai bisogni reali dei cittadini.
Victor Klemperer, nel suo libro Language of the Third Reich: Lti: Lingua Tertii Imperii afferma: “Se un linguaggio è creato con elementi velenosi o diviene portatore di sostanze velenose, le parole possono essere come minuscole dosi di arsenico, si inghiottiscono senza che uno se ne renda conto, sembra che non facciano nessuno effetto, ma dopo un certo tempo l’avvelenamento si fa notare”.
Le parole in sé non offendono, ma descrivono, esse diventano offensive nel contesto, ad esempio nella scrittura, ma anche nella modalità di come vengono espresse, come ad esempio il tono, la gestualità, la mimica facciale. Una stessa parola, anche volgare, può essere sia offensiva che un complimento, il tutto dipende dal contesto e da come essa viene espressa.
Il dramma della parola è quando incontra il pregiudizio figlio dell’etica di ciò che si deve considerare buono o cattivo, il quale vuole dare un senso a priori alla parola: negro, handicappato, cieco, spazzino, orbo, bidello, immigrato. Certamente sono parole che possono offendere ma anche in questo caso dipende come vengono espresse, le parole non hanno una ideologia, siamo noi a dare un senso positivo o negativo ad esse per convezione o ideologia.
L’uso delle parole, e non la parola, non è neutrale, nel senso che esse ne descrivono la percezione e la visione di colui che descrive un fatto; questo oggi è tipico nei programmi di intrattenimento non a caso in base alla collocazione politica delle trasmissioni si invitano al confronto le persone più incapaci o detestabili dello schieramento avverso, mentre in altri si predilige l’inchiesta unidirezionale. L’esempio tipico di quest’ultima tipologia di trasmissione è la differenza tra la trasmissione Report condotta da Milena Gabanelli e quella di Sigfrido Ranucci, in entrambi c’è una ottima capacità investigativa a livello giornalistico (se non ci sono veline preconfezionante) ma la differenza sta nella narrazione, mentre quella condotta dalla Gabanelli si raccontavano i fatti e poi si lasciavano dei dubbi, nella inchiesta di Ranucci la narrazione viene montata dando una meta interpretazione in cui gli investigati sono oggettivamente colpevoli senza che lo si dice, una tecnica raffinata dell’uso del linguaggio che utilizzando un mix tra sfumature dei toni delle parole e della stessa costruzione della narrativa il messaggio che si riceve non è di dubbio ma la consapevolezza che sono colpevoli.
Questo imbarbarimento della comunicazione, a cui l’ordine dei giornalisti sorvola, è dovuto a questa faziosità e doppio pesismo del sistema politico, dove nel gioco delle parti ognuno invoca il garantismo o l’oggettività dei fatti solo quando tocca la propria parte politica.
Tutto ciò sta determinando un aumento della faziosità politica, un linguaggio che esaspera gli animi di chi ascolta e un allontanamento della politica da parte degli elettori, che percepiscono la politica come qualcosa di altro, che a loro non interessa e ne colgono, sempre grazie a questa conflittualità a prescindere, solo gli aspetti negativi. In conclusione, possiamo dire che queste regole, nate nella Seconda Repubblica, alimentate dalla politica e dalla sua modalità di comunicare sostenuta dai media, sta determinando sempre più una crisi istituzionale tra i cittadini e la politica, e i dati sulla partecipazione al voto ne sono purtroppo un evidente segno.
di Roberto Giuliano