lunedì 13 maggio 2024
Arrampicarsi sugli specchi è rischioso, anzi impossibile. Ma c’è chi, durante una fuga precipitosa dalla realtà, ci prova. È esattamente ciò che è accaduto qualche sera fa a una giornalista – Concita De Gregorio – decisa a difendere il comportamento dei rumorosi contestatori che, in queste settimane, abbondano nella cronaca. La signora in questione, col fare sussiegoso “di chi sa”, ha introdotto un elemento di riflessione di cui si sentiva certamente un acuto bisogno per dipanare la matassa di aspetti sociologici e politici che sottostanno alle vicende di cui sopra. Si tratta della differenza fra censura e contestazione spiegando che i contestatori non intendono censurare ma solo contestare. La censura evoca chi, avendone il potere, vieta a qualcun altro la pubblicazione, orale o scritta, delle proprie idee. La contestazione, invece, costituirebbe una semplice e libera manifestazione di idee a favore o contro quelle di altri. Ne discenderebbe che interrompere o impedire ad altri di prendere la parola non sia altro che esercitare la libertà sancita dalla Costituzione. Una logica piuttosto singolare ma che certamente verrà gradita da molti. Peccato, però, che nella Costituzione non vi sia traccia, ovviamente, del termine “contestazione” né, tanto meno, vi sia riferimento al diritto di ostacolare eventi dei quali non si condividano i presupposti.
La contestazione, di fatto, è un fenomeno sociologico di recente acquisizione nelle democrazie occidentali e ne è in certa misura il segno di decadenza o di insufficienza delle istituzioni che regolano il vivere civile. Alla radice risiede l’affievolimento della “interiorizzazione” delle norme o, meglio, delle premesse di principio sulle quali si reggono le regole che consentono a una società di procedere recando il minor danno possibile alle libertà individuali. Ma, nella illuminante versione della De Gregorio, non c’è spazio per questioni così banali e superate: ciò che conta è difendere i contestatori sottraendoli all’accusa di censura esaltandone, semmai, la libera elaborazione di idee e il diritto di manifestarle in qualunque modo e momento, anche sovrapponendosi a manifestazioni altrui. Insomma, un bel quadro nel quale, tuttavia, spicca una evidente contraddizione. Infatti, se per censura si intende un atto reso possibile dal potere c’è da chiedersi: chi, durante una contestazione impostata per impedire fisicamente che qualcuno parli, detiene il potere? Chi lo esercita fattualmente attraverso urla, insulti e distruzione di questo e di quello, oppure chi subisce tutto questo? Certo, si tratta di un potere limitato nel tempo, ma, in quel frangente, l’azione violenta è chiaramente orientata ad acquisire e a esercitare potere. Per capirci: chi sequestra una persona con la forza e la trattiene in un luogo in cui il rapito è completamente succube della volontà del rapitore, subisce evidentemente il potere di quest’ultimo, anche se è un potere provvisorio.
La contestazione è sempre legittima? Ovviamente sì, se attuata secondo le regole stabilite dalla legge. Ovviamente no, se esercitata come forma di intimidazione o di sopraffazione, ovvero come forma di censura materiale. C’è, inoltre, da chiedersi quale sia, o possa essere, il quadro giuridico, e di buon senso, entro il quale si configurerebbe un preteso “diritto di contestazione”. Trattandosi di un palese fenomeno di conflitto sociale dovremmo chiederci entro quali regole esso sia accettabile. Ammesso, e non concesso, che interrompere o impedire una conferenza, una lezione o un intero convegno sia, incredibilmente, da ritenersi tollerabile, cosa dire se e quando un gruppo di contestatori decidesse di interrompere un concerto, magari perché il solista fosse ebreo? Già abbiamo a che fare con qualcosa di simile quando gli ultra-ambientalisti interrompono il traffico per contestare i Governi ritenuti insensibili alla verità che solo loro possiedono. Del resto, anni fa, durante il Sessantotto, a Trento la contestazione cercò di interrompere un rito religioso in cattedrale mentre alla Scala di Milano si esasperavano gli animi, con lanci di pomodori e uova marce, sull’onda di un ampiamente teorizzato odio di classe.
Ce n’è abbastanza per capirci: la contestazione, nelle forme cui assistiamo, non è una faccenda di “ragazzi” sensibili e pensanti cui dovrebbe andare la nostra attenzione affettuosa. Siamo di fronte, non solo in Italia, alla sola punta di un iceberg che presto o tardi dovrà essere inquadrato sia sul versante giuridico sia su quello pedagogico. La contestazione non può essere assunta come una sorta di quarto potere oltre a quelli costituzionali legislativo, esecutivo e giudiziario. Né si può lasciare alla polemica ideologica la discriminazione fra una contestazione legittima, se è di sinistra, e una illegittima se è di destra. Quando la contestazione si identifica con il reato a poco serve la sua distinzione dalla censura perché il risultato è lo stesso. Accettarlo in nome di una sorta di diritto consuetudinario sarebbe la più stolta e miope delle soluzioni, non solo perché anti-educativa, ma anche perché finirebbe per indurre reazioni spontanee di segno contrario, ipso facto a loro volta auto-legittimate, altrettanto infondate sul piano costituzionale e altrettanto pericolose.
di Massimo Negrotti