mercoledì 24 aprile 2024
Note a margine dell’opera di Ludwig von Mises “Burocrazia”, a ottant’anni dalla sua pubblicazione
In una fase devastante della storia dell’umanità, forse la più estesa e cruenta mai registrata, ottant’anni fa ha visto la luce Burocrazia, uno studio racchiuso in un libro di non molte pagine, ma ricco di idee illuminanti. Ludwig von Mises lo ha scritto nei primi anni da esule politico negli Stati Uniti, ove era stato costretto a rifugiarsi all’inizio degli anni Quaranta, ad oltre sessant’anni d’età, in quanto ebreo, dopo aver dovuto abbandonare prima l’Austria e poi la Svizzera, a causa del nazismo e per sfuggire alle sue persecuzioni contro gli ebrei.
Il tema dell’opera appartiene a quel filone di approfondimenti che, dagli anni Trenta del Novecento, gli studiosi di scienze sociali hanno dedicato al fenomeno della burocrazia. Su di esso, Bruno Rizzi, un autore importante anche se poco noto nel panorama della sociologia italiana, che era stato pure in contatto con Lev Trockij, aveva pubblicato a Parigi nel 1939 La bureaucratisation du monde. Qui aveva esposto una tesi che sconvolgeva i tradizionali schemi sociologici marxiani, sostenendo che l’Unione Sovietica non fosse né una società capitalistica né una società socialista, bensì un quid novi, il cui grande esperimento sociale aveva prodotto il “collettivismo burocratico”. L’opera fu pressoché ignorata in Italia per molti anni, probabilmente perché, come ha rilevato Luciano Pellicani, “la teoria rizziana disintegrava la fede messianica nell’ineluttabile passaggio dal capitalismo al socialismo tramite la soppressione del mercato. Ciò che riempiva di stupore e di irritazione i marxisti ortodossi era l’affermazione che il capitalismo poteva non avere quale suo naturale erede storico la società senza classi e che la statizzazione integrale dell’economia non sopprimeva lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Al contrario, lo rendeva più dispotico, arbitrario e totale, dal momento che gli operai diventavano proprietà dello Stato pianificatore e di coloro che occupavano il vertice della gerarchia burocratica”.
Subito dopo la fine del Secondo conflitto mondiale, James Burnham, che aveva militato per alcuni anni nella Quarta Internazionale ed era stato in contatto diretto con Trockij, che gli aveva fatto conoscere il lavoro di Rizzi, si impossessò dell’idea di quest’ultimo e, senza citare il suo autore, la utilizzò per il suo più celebre The Managerial Revolution. Nel libro, pubblicato a New York nel 1941 e comparso poi la prima volta in Italia nel 1946, da Mondadori, con il titolo alquanto fuorviante, La rivoluzione dei tecnici, il trotzkista americano sosteneva che era in atto nelle società industriali un progressivo trasferimento del potere dalla borghesia capitalistica a una nuova classe dominante che comprendeva tutti coloro che dirigevano dal punto di vista tecnico-organizzativo le aziende. Si suppone che George Orwell, che pare avesse incontrato Rizzi a Londra, abbia tratto ispirazione dal pamphlet di Burnham per il suo capolavoro 1984. Sul concetto di burocrazia restano in ogni caso fondamentali i lavori di Alexis de Tocqueville e di Max Weber.
Nel suo libro, Mises analizza la burocrazia e la genesi del relativo fenomeno: si interroga sul funzionamento dell’apparato burocratico, convinto che Stato e burocrazia vadano sostanzialmente di pari passo. La sua idea di fondo, che nel lavoro è esplicitata in modo chiaro e puntuale, è che ci siano solo due modi in cui la società può essere organizzata: sulla base della proprietà privata, del mercato e della libertà; o sulla base del controllo governativo, del socialismo e infine del totalitarismo. Il primo è guidato dalla ricerca del profitto; l’altro, dall’osservanza di norme e regolamenti dettagliati, fissati dall’autorità di un organo superiore. Per lo scienziato austriaco, la burocrazia è comunque qualcosa di negativo, la quale, in una società libera, basata sulla cooperazione sociale e la divisione del lavoro, non dovrebbe esistere: “I termini burocrate, burocratico e burocrazia sono chiaramente offensivi – ha scritto – nessuno si definisce un burocrate o chiama burocratici i propri metodi di gestione. Questi termini sono sempre usati in senso offensivo. Essi comportano sempre una critica denigratoria di persone istituzioni e procedure. Nessuno dubita che la burocrazia sia qualcosa di totalmente negativo e che, in un mondo perfetto, essa non dovrebbe esistere”.
Si tratta in ogni modo di un punto di vista che non è affatto isolato, ma esprime un sentimento abbastanza diffuso, le cui origini coincidono in pratica con quelle della burocrazia. Che non sono affatto recenti, tant’è che esisteva già nell’antico Egitto e negli Imperi persiano e cinese, che avevano creato un’imponente macchina burocratica, e altrettanto hanno fatto in seguito tutti gli altri re e imperatori. In epoca romana, si deve all’imperatore Claudio l’introduzione di un sistema amministrativo suddiviso in uffici e basato su procedure unificate, con un corpus di funzionari, designati dallo stesso imperatore. Per questi burocrati ante litteram, Tacito nei suoi Annales ha scritto che “esercitavano poteri regali con animo di schiavi”. Caduto l’Impero romano, il feudalesimo medievale ha tentato di organizzare il Governo senza burocrazia e relativi metodi, ma ha fallito gli obiettivi, producendo come conseguenza la totale disintegrazione dell’unità politica e l’anarchia. Lo Stato moderno, nato sulle rovine del feudalesimo, ha poi messo da parte principi e signori e la loro supremazia, sostituendoli con i burocrati e la gestione burocratica degli affari pubblici.
Tale sentimento antiburocratico può dirsi sia maturato dal raffronto tra il funzionamento delle Amministrazioni pubbliche, strutturate gerarchicamente e governate da funzionari, e quello delle imprese che producono beni e servizi, le quali operano nel mercato e sono votate alla realizzazione di profitti. In detto contesto, è stato pure sollevato l’interrogativo del perché venga ancora mantenuto in vita un sistema burocratico così inefficiente e dispendioso, ed è stata inoltre avanzata la proposta di mettere alla guida delle Amministrazioni pubbliche e delle imprese di Stato dei manager privati, i quali hanno mostrato, nelle loro aziende, capacità di gestione ed organizzazione e condotto le stesse al successo. Per Mises, che può essere considerato un teorico dello Stato minimo, nel cui territorio ha soggiornato per tutta la vita, senza però ipotizzarne l’estinzione, “quel che caratterizza il punto di vista liberale – ha difatti sottolineato – è l’atteggiamento nei confronti della proprietà privata e non l’avversione per la persona dello Stato”. Quest’ultimo “non può funzionare senza Amministrazione e senza metodi burocratici. E siccome la cooperazione sociale non può funzionare senza una pubblica Amministrazione, una certa dose di burocrazia è indispensabile”.
In realtà, più che la burocrazia, che in sé stessa non è buona né cattiva, il vero problema è piuttosto il progressivo, e quasi inarrestabile, sviluppo dello Stato moderno, la cui espansione elefantiaca, sospinta da politiche economiche e sociali sempre più interventiste, ha comportato, in molti settori, la sostituzione del controllo governativo all’iniziativa privata e, pertanto, l’estendersi della sfera in cui la gestione burocratica è stata messa in atto. Ciò ha determinato, da un lato, il progressivo restringimento della libertà individuale, in correlazione al dilatarsi di sistemi e pratiche burocratiche, che hanno altresì fatto emergere una nuova classe sociale, quella dei burocrati, dotata di poteri forti e difficili da controllare, e tende a moltiplicarsi con processi che si potrebbero definire “metastatici”; dall’altro, la diffusione una mentalità ostile al mercato e al sistema di cooperazione sociale che esso soltanto può assicurare.
Invero, fermo restando che in uno Stato democratico alcune attività devono essere necessariamente gestite burocraticamente (come, ad esempio, le esattorie, i dipartimenti di Polizia, i servizi di certificazione ed amministrativi), è indispensabile circoscrivere il potere burocratico entro i suoi confini fisiologici minimi, consolidando a tale scopo i limiti opposti dalla legge e dal bilancio pubblico. Contestualmente, occorre de-pubblicizzare e liberalizzare i tanti settori ora impropriamente in mano pubblica (sanità, trasporti, istruzione, media e comunicazioni), consentendo alle imprese private di svolgere in modo competitivo, e per la ricerca del profitto, le relative attività nell’ambito del mercato, nel quale sono sovrani i consumatori: “Il sistema di produzione capitalistico – ha ancora scritto Mises – è (...) una democrazia nella quale ogni penny dà diritto a un voto. I consumatori sono il popolo sovrano. I capitalisti, gli industriali e gli imprenditori agricoli sono i mandatari del popolo. Se essi non obbediscono, se non riescono a produrre al più basso costo possibile, ciò che i consumatori richiedono, perdono il loro posto. Il loro compito sta nel servire i consumatori”.
Né può sostenersi che la burocraticizzazione delle imprese private sia ormai inevitabile, atteso che siffatta evenienza, ove appare invece realizzata, non può considerarsi in termini di evoluzione del sistema capitalistico, bensì come il risultato più eclatante dell’interventismo statale, che ha pervaso la gestione delle medesime imprese e le ha distolte dal perseguimento degli obiettivi propri di redditività per adeguarsi agli orientamenti del potere politico: “Se viene amministrata con l’unico scopo di realizzare profitti – ha sottolineato ancora lo studioso austriaco – nessuna impresa privata cadrà mai preda dei metodi burocratici. (...) Qualsiasi impresa industriale, non importa quanto grande sia, è in grado di organizzare la sua attività e ogni settore di essa in modo tale che lo spirito capitalistico di ricerca del guadagno la permei da capo a piedi. (...) La sovranità dei consumatori e il funzionamento democratico del mercato non si arrestano davanti alle porte della grande impresa”. Viceversa, agli apparati burocratici, che sono necessariamente rigidi, non possono seriamente essere applicati i metodi imprenditoriali, mancando qualsiasi criterio di calcolo della redditività per valutare i risultati conseguiti in rapporto ai costi, e non potendo la burocrazia, proprio per le sue caratteristiche specifiche, adattarsi alle situazioni così come può fare un’azienda privata che opera nel mercato.
di Sandro Scoppa