venerdì 19 aprile 2024
Un’autentica pace, stabile e duratura, può realizzarsi solo tenendo presente che la guerra è un atto politico come tale va trattata. Viene iniziata per raggiungere un obiettivo che con la diplomazia non è stato possibile realizzare. Da quando nel grande teatro della storia mondiale hanno fatto irruzione le masse popolari, Napoleone Bonaparte lo capì prima e meglio dei suoi avversari, essa è diventata un fatto che coinvolge appieno i civili e l’opinione pubblica sia degli aggressori che degli aggrediti. È diventata totale. Qualsiasi conflitto, a bassa o ad alta intensità, regionale o continentale, ha le stesse caratteristiche: inizia come crisi diplomatica, continua come militare e si conclude con una negoziazione in cui le parti raggiungono un equilibrio di potere con un accordo che sia tale da prevenire un riaprirsi del conflitto. Ma gli scontri militari sono prevedibili? Quasi sempre sì, in genere sono preceduti da un insieme di preparativi di mezzi e di uomini tale che è quasi impossibile nascondere le intenzioni bellicose di uno Stato. Sta all’abilità dei politici, alle capacità dei diplomatici e al buon senso di chi governa, aprire lo spazio della negoziazione preventiva per tentare una via pacifica. Dando per assunto questo, a guerra iniziata, nonostante le parti in causa, anche attraverso terzi continuino a parlarsi, le armi hanno la precedenza su tutto ed il conflitto può trasformarsi da locale in globale a causa della rete di alleanze.
In ogni caso, continuando la guerra a perseguire obiettivi politici che non sono definiti dai militari, c’è sempre la possibilità di arrivare a una composizione diplomatica. È necessario avere però il colpo d’occhio d’insieme che fa cogliere a chi ha la gestione del momento le opportunità che si presentano: sia diplomatiche che strategiche. Purtroppo però capita in molti casi che il cuore della questione non risieda in chi è sul campo di battaglia. Gli interessi di altri attori internazionali, coinvolti esternamente nel conflitto che lo alimentano per motivi non palesi, fanno sì che nonostante ci sia la volontà dei belligeranti di chiudere la crisi il più rapidamente possibile, la carneficina continui a tempo indeterminato, portando con sé crimini, violenze, vittime civili, caduti militari e devastazioni nei territori coinvolti, per non parlare dell’odio inestinguibile che si perpetua nel tempo proprio per il fatto che i popoli sono nelle controversie moderne coinvolti appieno, sia sul piano del consenso che su quello del confronto. Sono diventati attori della storia dell’umanità e come protagonisti ne partecipano di tutte le conseguenze, sia in termini di vantaggi che di disastri.
Gli eserciti con la Rivoluzione francese tornarono di “popolo”, e quello che grazie a Gaio Mario era il mestiere del soldato ben pagato, onorato e riservato ai professionisti, dal 1793 divenne un obbligo di ogni “cittadino” che a prescindere dalla sua condizione venne inquadrato e schierato in battaglia. I giovani sono così “carne” da cannone che la politica utilizza per i propri fini, palesi o occulti che siano perché la vita dei giovani si ritiene non appartenga a loro ma allo stato e come tale se ne può disporre senza limite. Ultroneo, ma utile, ricordare i tanti militari di leva che furono mandati a morire nella seconda guerra mondiale in Russia o in Africa.
In questo tragico gioco poi il fattore tempo ha la sua rilevanza. Per chi attacca la rapidità di arrivare ad un successo definitivo spesso è decisiva a causa degli approvvigionamenti e per il fatto che è costretto a controllare un territorio ostile e impiegare così forze che altrimenti sarebbero posizionate al fronte e quindi un ritardo delle operazioni, se non pianificato, risulta dannevole per l’evolversi del conflitto. Per chi si difende il trascorrere dei giorni risulta un vantaggio, ma solo se ha la speranza di un aiuto esterno, di un mutamento delle alleanze anche dell’avversario o di un capovolgimento improvviso della situazione, fermo restando che anche lui deve passare in qualche occasione al contrattacco, sia per dare la sensazione al nemico della sua vitalità e magari costringerlo a più miti consigli, che per rinfrancare il fronte interno. Purtroppo i popoli in guerra cadono velocemente nella pericolosa trappola del militarismo che, come scrive Joseph Alois Schumpeter, è “un atavismo della struttura sociale”, con l’effetto di annichilire gli individui perché, sottolinea Herbert Spencer, “non è tanto una vita sociale impegnata in occupazioni pacifiche che moralizza positivamente, quanto una vita sociale occupata nella guerra che demoralizza positivamente”.
Una possibile via di uscita è quella della cooperazione volontaria tra gli stati, che può gradualmente sostituirsi a quella obbligatoria, con la costituzione di aree di libero scambio anche in termini di migrazione in cui la circolazione di uomini e merci non sia sottoposta a restrizioni irragionevoli. Significherebbe adottare un atteggiamento aperto nelle relazioni e alla comprensione delle ragioni dell’altro con la speranza e forse con la prospettiva di evitare ulteriori ed inutili lutti ai popoli, come affermò Richard Cobden il 2 maggio 1847 nel discorso che tenne all’Accademia dei Georgofili: “Il libero commercio ha una più alta missione ancora, che il cambio delle merci fra le differenze Nazioni: esso è diretto a togliere i pregiudizi della nascita, del colore, della religione del linguaggio e ad unire l’uman genere nei vincoli di fratellanza e di scambievole indipendenza”.
di Antonino Sala