giovedì 18 aprile 2024
Certo, l’Occidente nel suo complesso è attraversato da cupi fremiti che invocano, implorano, pretendendola, la pace in Medio Oriente. Se ciò fosse possibile l’umanità si sarebbe risparmiata migliaia di conflitti e milioni di vite, ma così non è. Aristofane nel 421 avanti Cristo, al tempo dell’inconcludente pace di Nicia tra i protagonisti della guerra del Peloponneso durata 27 anni, sceneggiò un’attuale e istruttiva commedia. Gli Dei, contrariati dal prolungarsi del conflitto, avevano lasciato l’Olimpo nelle mani di Polemos, demone della guerra, la Pace rinchiusa in un anfratto venne liberata dai contadini greci procurando gioia, tranquillità e gloria nonché il rifiuto della guerra. La lode per la vita agreste che accompagna il ritorno della pace, in sintesi, convive con una sorta di utopia, non utopia.
Già, la Pace, da sempre speculazione dell’Uomo sull’Uomo, vede la medievale teologia di Tommaso D’Aquino, pervasa dal suo giusnaturalismo, individuare in essa un diritto naturale. Considerazioni sull’antichità utili a inquadrare il nostro percorso sul conflitto che ci confortano nel pensare al di là di qualsiasi deferenza politica, di una informazione politicamente corretta, di aprioristiche convinzioni produttrici di partigianerie e improduttivi costruttivismi.
Soffermarsi su Gaza e Israele è impegno mediatico e di quotidianità politica. Giungere a ragionamenti di una qualche compiutezza non attiene né all’oggi né al domani, ma al tempo dell’indomani, se vogliamo avvicinarci, per dirla con Martin Heidegger, a ciò che è utile da pensare. I conflitti etnici religiosi hanno attraversato decenni e secoli: Guerra dei Trent’anni, Ugonotti-Cattolici, Fiamminghi-Valloni, guerre civili in Burundi, Myanmar, Sud Sudan, curdi-turchi.
Il problema palestinese si avvia verso i centocinquant’anni, datando i primi esodi al 1881. Gli ebrei residenti nel 1900 erano 50mila e allo scoppio della Prima guerra mondiale ben 80mila, quando la Palestina era ancora provincia dell’Impero ottomano (1516-1918). Proprio l’Impero ottomano e la sua espansione nei Balcani e in Medio Oriente ci offre una visione della complessità per gli intrecci tra conquiste territoriali e contrapposizioni etniche religiose. Visione che sta a indicare il diverso livello di contrapposizione e capacità di perdono della gente nei conflitti tra combattenti e quelli che interessano pesantemente anche i civili. Stermini di congiunti, estesi coinvolgimenti di famiglie non si tralasciano né si perdonano con tregue, armistizi. E, a volte, neppure con la pace.
Caduto l’Impero romano d’Oriente e presa Costantinopoli si avvia l’espansione ottomana nei Balcani che, per la convivenza, dopo cinquecento anni e l’ultimo conflitto tra Serbia e Kosovo, ancora oggi necessita di truppe internazionali d’interposizione. Gli ottomani musulmani non potevano convivere con il mondo cristiano ortodosso originato nel 1056 con la scissione dai cristiani cattolici che, già nel IX secolo, con i santi Cirillo e Metodio, avevano avviato la cristianizzazione dei Balcani centro orientali. Conflitti e massacri, ricordiamo quello di Otranto nel 1480, 813 decapitati, si protrassero fino al fallimento del secondo assedio di Vienna (1683), una pesante sconfitta che arrestò la spinta ottomana in Europa, affievolendola nei Balcani. In effetti, il tramonto della visione imperialista ottomana avviene con la nascita della Repubblica turca solo nel 1923. Ecco un precedente storico, naturalmente con proprie specificità e condizioni, di un conflitto territoriale che si intreccia e avviluppa con determinazioni religiose.
Cinquecento anni per i Balcani, ancora con i suoi strascichi, centoquaranta, tra turbolenze, rivolte e guerre, per la terra di Canaan, continueremo l’approfondimento non per associarci a uno degli schieramenti, né per insistere su ragioni o torti, deboli per essere rilevanti al fine di una soluzione e non sarebbero di utilità al nostro discorrere. Responsabilità esterne? Certamente sì, individuabili nell’eziologia del conflitto.
Il 2 di novembre 1917 il ministro degli Esteri inglese, Arthur James Balfour, a nome del Governo e di sua Maestà, invia una dichiarazione a Lord Lionel Walter Rothschild, esponente all’apice del movimento sionista, fondato a Basilea nel 1897, in cui si afferma “di vedere con favore lo stabilirsi in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico”. Dichiarazione del tutto equivoca: all’espressione focolare-nazionale sono attribuibili gran varietà di significati. Nello stesso mondo ebraico, infatti, si contrapposero la visione sionista, per la nascita di uno Stato ebraico in Palestina e una concezione religiosa che trovò nel Consiglio americano per il giudaismo il sostegno alla convinzione che si può essere ebrei per religione e non per nazionalità. Il rifiuto del nazionalismo politico ebraico non ebbe seguito. A partire dalla fine della Grande guerra l’esodo in Palestina andò via via incrementandosi, fino a raggiungere – nel 1948 – 650mila residenti, il 31,4 per cento della popolazione a fronte di 1 milione e 415mila arabi.
Furono anni in cui il Regno Unito esercitò il mandato della Società delle Nazioni – dal 1920 al maggio 1948 – momento in cui Ben Gurion fonda lo Stato d’Israele. Dall’inizio del secolo scorso, e particolarmente tra le due guerre, la Palestina, territorio dell’Impero ottomano fino al 1918, fu attraversata da violenti scontri armati tra le due popolazioni. Questo fino alla proclamazione dello Stato d’Israele quando, nello stesso mese, scoppia la prima guerra tra arabi e israeliani a cui, con quella in corso, ne seguono altre cinque.
Alla conclusione del Secondo conflitto mondiale, l’eccellente rapporto tra Gran Bretagna e movimento sionista s’incrina fino a giungere nel 1946 all’attentato nel King David Hotel di Gerusalemme che provocò la morte di 91 persone, tra cui decine di militari e funzionari britannici, e all’uccisione nel 1948 del conte svedese Folke Bernadotte da alcuni mesi nominato dalle Nazioni Unite mediatore in Palestina. L’eccellenza del rapporto era dovuta, tra l’altro, alle sfortunate scelte del mondo arabo sullo scacchiere internazionale. Infatti, nella Prima guerra mondiale l’Impero ottomano si schierò con gli Imperi centrali, nella Seconda il Gran Mufti di Gerusalemme Amin al-Husayni, avendo incontrato Adolf Hitler a Berlino nel 1941, avviò una collaborazione con la Germania. Tra l’altro dal 1943 operarono la 13esima Divisione Waffen Ss e altre nella Legione Araba inglobata nella Wehrmacht. La scelta di campo dei musulmani, naturalmente, non poteva non favorire, rafforzandola, la collocazione ebraica nel consesso occidentale peggiorando di conseguenza le condizioni esistenziali dei palestinesi.
A fronte dei due milioni residenti in Israele, circa sei milioni sono i palestinesi rifugiati in vari Paesi, prevedibilmente terreni di coltura per coriacei oppositori del domani. È un’illusione politica/militare credere che eliminare i terroristi di Hamas significhi la fine della convinzione e dell’anima terrorista. I discendenti dei morti odierni saranno gli oppositori di domani. Centoquarant’anni di contrapposizione, di vita non vita, di sangue, di svanite speranze, di accordi che sono stati interpretati, velocemente con ingenuo ottimismo, come fondamentali e possibili portatori di coesistenza e pace. Per ricordarli: 1978 Camp David, 1993 Oslo, 2020 Accordi di Abramo.
E allora, a questo punto, cosa c’è da pensare? Certamente, come già anticipato, occuparsi di ragioni e torti – e protendere per qualcuno – sarebbe fuori tempo. D’altronde, è del tutto evidente che le maggiori responsabilità sono da addebitare ai vincitori delle due guerre mondiali che, in un mix di malafede, incompetenza e pressappochismo per decenni hanno creduto in un facile e semplice innesto di una popolazione in un territorio già popolato. Oggi credere e sperare che la situazione complessiva del pianeta, le condizioni geopolitiche, leadership evanescenti con la sola consistenza mediatica, commedianti non in grado di comprendere il confine tra proprie sceneggiate e drammi sempre più drammatici, significherebbe accodarsi fideisticamente a un pericoloso prosieguo dello statu quo nunc. Significherebbe partecipare a miracolanti litanie, in cui si alternano petizioni per l’inesistente o per visioni e retoriche confacenti al politicamente corretto.
Nel primo caso, per un sistema di difesa dell’Unione europea, è noto che da qualche decennio a ogni crisi politica/militare gli europeisti di carriera assicurano la prossima realizzazione dell’indispensabile progetto. Nel secondo, per affermare l’unità occidentale, la vicinanza a Israele o all’Ucraina perché sono la difesa dell’Occidente (per l’Italia qualche modesto rifornimento di armamenti al secondo Paese, con la precisazione che non un militare italiano varcherà quei confini).
È superfluo girarci intorno: in questo tempo non si avvertono vie d’uscita. Solo pericolosi, sdrucciolevoli cammini capaci di perpetuare la grigia esistenza di questi popoli. Poi, se fino agli anni Settanta l’Onu ha svolto un ruolo confacente alla sua ragion d’essere, ormai da tempo, con le sue Agenzie – si veda l’Oms – ha ormai privatizzato le sue strategie. E in tutti i casi non svolge alcun ruolo per la coesistenza pacifica sul Pianeta. Allora: come venir fuori dalla Caverna platonica? Quando i veri attori, tralasciate le comparse, riusciranno a esprimere leadership capaci di usare e concretizzare parole di verità?
Il sillogismo di questo scritto ci induce a una immaginazione sul post-domani. La Comunità internazionale non può consumare le sue stagioni, tra le tante criticità, anche con un costante, pressante, asfissiante pensare all’eventualità di conflitti continentali. Se si attenuassero i contrasti oggi esistenti, tra i Paesi-guida o quelli coinvolti, si potrebbero individuare cammini di sensato intelligente dialogo.
Arabia Saudita, Cina, Egitto, Gran Bretagna, Giordania, India, Iran, Israele, Lega Araba, Libano, Palestina, Qatar, Russia, Usa, Gran Rabbinato d’Israele, Gran Mufti d’Egitto, Imam sciita, potrebbero dar vita a un Forum per la libertà e la vita dei due popoli. Utopia? Sicuramente un passo avanti alla pochezza di tanta politica internazionale. In tutti i casi, è preferibile il potere dell’immaginazione, se diretto a comprendere complessità storiche e contemporanee. In tutti i casi, è ancora preferibile un libero ragionamento all’inutilità delle grida di questi tempi.
(*) Direttore Società Libera
di Vincenzo Olita (*)