lunedì 15 aprile 2024
Nell’attuale fase mondiale il vento soffia nelle vele del potere politico. Emergenze di ogni tipo (dal terrorismo alle pandemie, dalla “crisi climatica” alle nuove guerre e mire imperiali) funzionano egregiamente per soddisfare la bulimia di potere degli Stati moderni – la massima concentrazione del potere politico mai conosciuta dall’umanità – tutti volti senza sosta, dall’inizio della loro storia, a concentrare e monopolizzare potere politico, fonti di autorità, diritto, prerogative, funzioni.
Tuttavia, non solo questa abbuffata rischia di diventare ormai indigesta, ma l’onda lunga dell’espansione e della continua diversificazione dei bisogni, non più arbitrariamente riducibili a pochi “ammissibili alla soddisfazione” da parte dello Stato (inizialmente con funzioni belliche: sussistenza, sicurezza, sanità, istruzione), mina la tenuta di queste obsolete compagini politico-territoriali centralizzate, eccezioni nella storia umana. Nonostante lo sforzo di indurre di nuovo, artatamente, le popolazioni a concentrarsi solo su pochi e elementari bisogni (la difesa dalla paura, la protezione dalla povertà), dimenticando tutti gli altri, le nuove esigenze stimolate dall’economia e dalla tecnologia debordano continuamente dalla pianificazione gerarchico-verticale e da un modello politico-istituzionale che risale alla Rivoluzione francese, sottoponendolo a una pressione insostenibile.
Di qui la necessità degli Stati di ricorrere a forme di decentramento, a “scaricare” funzioni o a concedere “autonomie” – contrattate o meno – che diano l’illusione dell’autogoverno (self-rule), fattore essenziale per gli assetti federali e l’indipendenza politica. Il tutto mantenendo un rigido rapporto gerarchico centro-periferia (presente anche nella “sussidiarietà”), un’unica fonte di potere, delegando solo funzioni amministrative, facendo credere a un inesistente “potere diviso” sul territorio statale, imbrigliando le periferie in rigidi controlli centralizzati, non concedendo risorse già estorte da questi “serbatori geografici di ricchezza” trincerati entro rigidi confini e mantenendo la facoltà di revocare il decentramento in qualsiasi momento.
Il caso inglese, quello spagnolo e quello francese dagli anni Settanta ne sono un esempio. Quello italiano, parte integrante della lunga e fallimentare storia del regionalismo unitario, è giunto oggi al capitolo dell’“Autonomia differenziata”, introdotta in Costituzione dalla riforma del Titolo V del 2001. Il ddl Calderoli è solo il tentativo di rimetterla in moto (con qualche aggiunta), dopo più di vent’anni di mancata attuazione, di effetti collaterali perversi causati da quella stagnazione e dopo sette anni di silenzio sul voto referendario plebiscitario di veneti e lombardi in favore della “concessione di ulteriori forme di autonomia”.
Nonostante l’abuso stridente di una terminologia appartenente a un altro universo concettuale, quello della teoria federale (che necessita di autogoverno politico e non di decentramento amministrativo), l’Autonomia differenziata non intacca un sistema ultracentralizzato come quello italiano e prosegue invece i tentativi e la teorizzazione francesi (già del nazionalismo monarchico di Charles Maurras, 1868-1952), volti a puntellare lo Stato unitario centralizzato (“uno e indivisibile”), preservandone una camicia di forza intessuta di omogeneità, unità politica, giuridica, economica, sociale e di livellamento equalificante di fronte allo Stato (mediante “perequazioni” decise dall’alto), alleggerito con la concessione di funzioni decentrate. Lo stesso ddl Claderoli abbonda di queste ossessioni fin dai primi articoli. Più realista del re, si spinge perfino a togliere il decentramento della scuola dalla Riforma del 2001, forse perché potrebbe stimolare insane tentazioni di pluralismo e più chiare idee su cosa potrebbero essere l’autogoverno e l’indipendenza politica (anche in materia culturale) da un centro uniformizzante e livellatore. Senza notare che una scuola centralizzata e uniforme è una violazione dell’articolo 33 della Costituzione vigente.
Di semplice trasferimento di funzioni amministrative fra livelli organizzati gerarchicamente (l’opposto del federalismo) si tratta e come ha scritto il giurista Roberto Bin, non si capisce perché per questo spostamento si debba ricorrere al particolare procedimento richiesto dall’articolo 116, comma 3 della Costituzione (testo del 2001) e non alle modalità consuete di decentramento, già impiegate nel 1972, 1977 e 1979. Inoltre il tallone d’Achille del decentramento, la questione cruciale della chiarezza sul “chi paga e chi riceve”, rimane avviluppata nel decreto in perverse e confuse dinamiche perequative, in “compartecipazioni ad alcuni dei tributi erariali” maturati sul territorio regionale (laddove “compartecipazione”, continuamente modificabile dallo Stato, è sinonimo di mancanza di responsabilità e perpetua il modello di finanza locale derivata, che perfino la riforma del 2001 intendeva superare), in trasferimenti che non tamponano la redistribuzione discriminatoria (che ha fatto esplodere numerosi Stati unitari centralizzati alla fine del Novecento), dovuta al mostruoso residuo fiscale: fiumi di risorse senza paragoni nel resto del mondo, che lasciano le regioni più produttive di questo Stato territoriale per scomparire nel buco nero del centralismo.
Questo, infatti, rimane intatto (non essendo previsti ulteriori oneri per la finanza pubblica nel caso di decentramento di funzioni), così come non decolla alcuna autonomia tributaria locale, imbrigliata da vincoli di finanza derivata e da rigidi recinti legislativi statali. Lo Stato continua a considerarsi il “padrone” delle risorse prodotte dai cittadini (espropriando ben oltre la metà del reddito privato), che non hanno il diritto di pretendere maggiori servizi in virtù della loro produzione. Gianfranco Viesti, l’economista polemista della “secessione dei ricchi” e alcuni suoi colleghi hanno cercato di giustificare questa assurdità, dimenticando che l’ideologia stessa dello “Stato dei servizi” si basa proprio su questo assunto. Del resto, questo lo si era già capito quando la Corte costituzionale nel 2005 aveva dichiarato inammissibile il quesito referendario proposto dal Veneto sul residuo fiscale, definendolo poi nel 2016 “controverso”, “presunto”, “giuridicamente irrilevante”: come se non si trattasse invece di uno strumento scientifico di enormi valore e utilità, scaturito dalla ricerca del Premio Nobel James McGill Buchanan negli anni Cinquanta.
Che le Regioni che ottengono l’autonomia differenziata possano poi usare quanto risparmiano, svolgendo meglio di Roma le funzioni attribuite, è impedito dall’articolo 8 del ddl Calderoli. Dopo quanto accaduto in marzo alla Valle d’Aosta, con il divieto della Consulta di trattenere presso questa Regione a Statuto speciale i nove decimi degli extraprofitti delle imprese energetiche, perché, si è detto, può rivendicare solo quelle legate alle funzioni che lo Stato le ha attribuito, è diventato ancor più lampante cosa potrà trattenere una Regione a Statuto ordinario: meno di nulla. L’esatto opposto di ciò che evoca la parola autonomia e il contrario della logica. Ogni incremento di gettito viene inteso infatti come proprietà dello Stato centralizzato, eventualmente da devolvere in “perequazione”. Vulgo: sostentamento di un apparato statale e di tutti i suoi derivati, di proporzioni gigantesche, in coerenza con tutta la storia dello Stato italiano e la sua opera di accelerazione del galoppante sottosviluppo del Meridione, che ormai ha un Pil pro capite inferiore a quello della Romania.
Allo Stato inoltre rimane il potere sostitutivo e in capo al premier quello di limitare l’oggetto del negoziato ad alcune materie (“per tutelare l’unità giuridica e economica”: anche questo è incostituzionale, poiché le funzioni oggetto della trattativa sono già fissate in Costituzione dalla Riforma del 2001) e di sospendere l’intesa con la Regione singola e di revocare tutte le funzioni decentrate. L’Autonomia differenziata e il ddl Calderoli, scritti in un burocratese che evapora dalle pagine in cortine fumogene atte a mantenere in piedi un assetto che continua a produrre disfunzioni e che ha già prodotto, dall’Ottocento a oggi, innumerevoli forme tiranniche (ministeriali, fasciste, partitocratiche, clientelari, neopatrimoniali), rimangono l’espressione più pura di quello che Gianfranco Miglio definiva “brodaglia falso-federalista”. Sono il tentativo – fonte di ingenue illusioni – di rivitalizzare il decrepito assetto del claudicante regionalismo italiano, nato nell’Ottocento per ragioni statistico-fiscali e di coscrizione militare, poi copiato dai Padri costituenti nel 1948, con regioni squilibrate, senza fondamento storico, etnografico e socio-economico, inadatte per qualsiasi autogoverno. È un tentativo che assomiglia a quando, invece che liberarsi di un’automobile ormai vecchia e da buttare, ci si ostina a farla camminare cercando pezzi costosissimi, collegando fili e tubi nel modo più improbabile, sprecando infiniti tempo e risorse per vederla poi prolungare la sua vita su strada di qualche centinaio di chilometri. Una spesa che non vale l’impresa. Come si accorgeranno i cittadini, sempre più scettici, di questo Stato territoriale che si avvita in un inarrestabile declino.
di Alessandro Vitale