Il tribunale della storia

martedì 9 aprile 2024


La Repubblica e i falsi miti della sua nemesi oscura

Dicevo già in precedenti scritti che la condizione essenziale perché le commemorazioni di eventi possano servire a qualcosa è che esse si propongano come occasioni di serie riflessioni storico-critiche e non retoriche o apologetiche circa gli eventi di cui ricorre l’anniversario. Ma così non è stato, né lo è tuttora! Già a suo tempo, la ricorrenza del centenario della Vittoria italiana del 4 novembre 1918 contro l’Austria non è sfuggita a questa regola, poiché, a parte qualche stanca cerimonia di rito, è sceso un generale silenzio, che ha avuto per lo più matrici ideologiche, a volte con contorni addirittura faziosi. Ma v’è di più, in quanto avevo anche preconizzato – ma, ad onor del vero, soltanto sarcasticamente – che per uscire definitivamente da un ambiguo imperativo celebrativo, che stride con i suoi reali miti fondanti, vale a dire esclusivamente quelli antifascisti e resistenziali, questa Repubblica, per dovere di coerenza, avrebbe fatto bene a depennare dal novero di anniversari e ricorrenze quella della vittoria del 4 novembre, sancendo così la “morte della Patria”, ma giammai pensando che in effetti si sarebbe potuto arrivare a tanto!

E invece, in ossequio alla vulgata del Politically correct in atto, oscillante nei fatti tra la mistificazione e il ridicolo, pure quella ricorrenza è ora definitivamente entrata nel vortice inesorabile della Cancel culture, dato che, anche sotto il profilo formale, la recentissima Legge numero 2024 del 1° marzo scorso, espungendo del tutto quella vittoria, ha istituito, proprio per il 4 novembre, la Giornata dell’Unità nazionale e delle Forze armate, il che appare francamente finanche grottesco in un momento di massima divisività ideologica, morale e persino antropologica; il tutto, accompagnato peraltro da una schiumosa retorica, stucchevole e a tratti anche involontariamente comica – in special modo per quanto riguarda le Forze armate – che, nonostante tutto, rimane confinata nella magniloquenza e nell’apologia dell’ancora imperante sinistroide regime culturale.

Dunque “Justice est faite”! Tutto questo è il frutto venefico scaturito dalla nuova “veste sacerdotale” di cui si è ammantata questa Repubblica, assurta così a Tribunale della Storia, o meglio a “Giudice degli inferi incaricato di assegnare premi e punizioni agli eroi morti” (Marc Bloch), nonché – in qualità di inflessibile custode della “santità” delle vicende storiche – a implacabile cerbero assetato di vendetta. Tutto ciò discende innanzitutto dall’irremovibile pregiudizio ideologico, unito ad un isterico livore verso Casa Savoia, relegata tutt’al più al periodo risorgimentale e quindi confinata esclusivamente alla tradizione, da parte di una contemporaneistica manichea, cinica e demagogica, allineata al politicamente corretto in atto, quando non proprio attardata su modelli veteromarxisti: questo costituisce il substrato politico-intellettuale della Repubblica nostrana, con tanto di “verde tartaro tra i denti”, in cui trovano posto solo istanze culturali semi-totalitarie ed egemoniche di una Sinistra ancora racchiusa nella sua macabra identità irrisolta!

È questo lo spettro che anima l’attuale subcultura di tali protagonisti dannati, moderni “Arcangeli della morte”, i quali pontificano a sproposito e, galleggiando nel fiume impietoso degli accadimenti storici, continuano a vivere nell’ossessione antifascista e nel preconcetto antimonarchico. Cosicché, continua ad imperare indisturbata una dittatura del politicamente corretto che sta gradatamente consumando la storicità come comprensione del passato, una tirannide intellettuale a guisa di una Stultifera navis che veleggia nel piatto mare dell’indifferenza e dell’incoscienza generali, in una nazione che ha abbandonato pure se stessa. Ma il fondamentale aspetto motivazionale che conduce direttamente a siffatte aspre considerazioni è da rinvenirsi, per costoro, affetti da insanabile hybris, proprio nel significato recondito di quella vittoria.

Secondo l’untuosa e settaria opinione storiografica più che mai in auge, quella vittoria dimenticata – ma ora anche cancellata del tutto – fu prodromica all’avvento del fascismo, anzi ne fu pronuba, in quanto il fascismo si ergeva a unico erede dell’arditismo, del volontarismo, del cameratismo, dell’aristocrazia da trincea, cosicché il mito dell’uomo nuovo andava a braccetto con il mito della vittoria mutilata. Il tutto a causa di una visione ideologica in base alla quale quella vittoria, più che superare la disperazione di Caporetto, fu una vittoria ambigua da cui il fascismo trasse forza e consenso, ciò che stride enormemente con la mitologia della Repubblica, la quale, anziché sforzarsi nella ricerca di nuovi valori condivisi e fondanti della civitas nazionale, dall’antifascismo continua a trarre, stante l’imperante criptocomunismo che la anima, la sua primaria ragion d’essere. Così pure il Milite ignoto, il quale, al di là di omaggi formali, rientra in questa categoria da dimenticare, poiché pur esso ha rappresentato uno dei simboli cardini della propaganda fascista.

Ma a questo punto occorre svolgere alcune considerazioni esplicative proprio sui miti che alimentano il rancore verso quella vittoria, sulla quale ora è definitivamente calata la vindice scure della Repubblica. Ed ecco dunque, dopo la disfatta di Caporetto nell’ottobre del 1917 – allorquando tre armate, la 2ª, la 3ª e la 4ª, si ritirarono fino al fiume Piave – in uno al generale malessere che aveva finito per attanagliare la maggioranza dell’opinione pubblica, la vittoriosa battaglia di Vittorio Veneto, iniziata il 24 ottobre dalla linea del Piave, ciò che avrebbe indotto l’Austria a firmare l’armistizio il successivo 4 novembre. Certamente, il Trattato di pace di Versailles, nel gennaio dell’anno successivo, nonostante l’acquisizione del Trentino, l’Alto Adige, Trieste e Zara, ma non della Dalmazia assegnata alla Jugoslavia, alimentò scoraggiamento e delusione a fronte del mancato ascolto delle richieste italiane, in particolare per Fiume e per la partecipazione alla spartizione delle colonie, sebbene questa fosse stata promessa nel Patto di Londra.

In Italia, quindi, trattata come una Potenza di second’ordine dagli alleati, prendeva piede il mito della “vittoria mutilata”, che peraltro non era del tutto privo di fondamento, sebbene l’odierna vulgata storiografica tenda ad affermare il contrario; né, d’altra parte, l’autorità governante si mostrava del tutto capace di risolvere i problemi del dopoguerra, da quelli sociali, sfociati nel “biennio rosso”, al reducismo. In effetti, quello che venne firmato a Versailles non fu un trattato di pace, ma soltanto una tregua. Cosicché nel 1919 incominciava il countdown di una nuova e più terribile guerra mondiale! Lungi da voler ripercorrere gli sviluppi bellici di quella che è stata definita “la Madre di tutte le guerre”, in quanto rappresentò la nascita della moderna guerra totalitaria, ma al fine di pervenire ad un plausibile quadro interpretativo in cui possa trovare appropriata collocazione anche il mito del Milite ignoto, anch’esso individuato come pronubo del fascismo, occorre svolgere alcune considerazioni che ci consentano di inquadrare più esattamente ulteriori elementi mitici colpiti dall’ostracismo storiografico repubblicano. Siffatte riflessioni prendono avvio già dalla dicotomica contrapposizione tra neutralismo – che trovava suo terreno fertile nel pacifismo, nell’internazionalismo e nell’antimilitarismo, vale a dire nell’eredità giusnaturalistica del socialismo – e interventismo, in cui dominavano stati d’animo e aspirazioni diverse, quali ampliamento di obiettivi di politica estera, politiche di potenza, liberazione di terre irredente, ma anche fermenti irrazionalistici, volontaristici ed anche decadentistici: comunque, un coacervo di valori empirici che, in un modo o nell’altro, assegnavano in ogni caso un posto privilegiato al concetto di Patria.

In siffatte aspirazioni emergeva in ogni caso un primato del fare, un dissolvimento del pensiero nell’azione, un attivismo di cui si rendeva protagonista soprattutto Gabriele D’Annunzio; in definitiva, un complesso di valori che alimentavano direttamente il mito della guerra. Questo si fondava, dunque, su vari elementi: patriottismo, ricerca di uno scopo nella vita, amore di avventura e ideali di virilità, tutti fattori che segnavano lo spirito guerriero dei giovani volontari, in un clima di movimenti e correnti in campo artistico e letterario che non mancavano di sottolineare il mutamento a cui si stava assistendo. Tra essi spiccava il Futurismo, il quale, esaltando una virilità militare che glorificava la conquista e la guerra e sostituendo il movimento violento all’immobilità del pensiero, denotava tutti gli aspetti bellici in modo positivo, talché proprio la magnificazione della guerra, come desiderio ardente dello straordinario, divenne una decisa forma di opposizione ad una società pietrificata. Anche la figura idealizzata del soldato comune divenne una componente essenziale alla creazione del mito dell’uomo nuovo che avrebbe redento la Nazione, che confluiva in quello dello Stato nuovo, come processo di formazione di una coscienza politica estesa che può definirsi come “radicalismodi tradizione mazziniana. Certamente, l’occasione dell’evento bellico segnava il fondamentale passaggio dall’idea all’azione nella prospettiva dello Stato nuovo, ereditato e poi fatto proprio dal movimento fascista. A tal proposito, ben si attaglia l’affermazione di Emilio Gentile sulla genesi del fascismo, individuato come “un movimento collettivo di giovani che si erano formati nella brutalizzante esperienza della guerra…che assimilò i temi del radicalismo nazionale integrandoli con i miti dell’interventismo, del trincerismo e del combattentismo”.

Ma siffatta ricostruzione, perfettamente aderente a quel particolare, complesso contesto storico, non può essere rabbiosamente brandita come arma ideologica per cancellare in un sol tratto quella guerra e quella vittoria, in cui il mito ha svolto una funzione importante nella presa di coscienza politica delle masse, talché, finendo per perdere i tipici tratti politico-sociali, ha fuso la sua identità con il concetto di eroismo. Anche gli spiriti di quei caduti, diventati solo stracci senza memoria ingoiati dall’oblio, hanno diritto a quell’angolo di cielo che “Il Dio degli eserciti riserba ai martiri ed agli eroi”! Per l’appunto, il mito e l’eroismo finirono per confluire in un processo edificatore, purificatore, per il popolo e per la politica italiana, teso alla costruzione di un ideale supremo: un percorso politicizzato, basato su ideali come Patria, Nazione e Stato, a cui si affiancò un processo morale che ebbe come elemento unificante l’esempio supremo incarnato da soldati e condottieri della guerra.

Di certo, da allora è stato impossibile mantenere un ininterrotto percorso identitario, soprattutto per il trauma di un’altra guerra mondiale, a distanza di venticinque anni dalla Prima, a seguito della quale, dopo il 1943-45, i meccanismi di legittimazione e i vincoli simbolici e ideologici, che duravano dall’unificazione dell’Italia, ebbero per lo più a dissolversi, cosicché qualcosa di simile alla morte si è verificato: senz’altro morì una Patria, e con essa anche il patriottismo della Nazione, sostituito dal patriottismo di partito o dal patriottismo di classe come l’unico vincolo della comunità politica nazionale. Caduto nella polvere, assieme al fascismo, il concetto stesso di nazione, la legittimazione democratica, dunque, non poteva che provenire se non da partiti fortemente ideologizzati, con tutte le conseguenze negative sullo sviluppo democratico del Paese, rimanendo in tal modo a tutt’oggi ancora irrisolta la grande questione del nostro vivere collettivo.

Ma un altro grande momento di rottura che separa enormemente l’Italia attuale da quella della Grande guerra è stato l’avvento di ordinamenti politici di tipo democratico così come sanciti dalla Costituzione repubblicana del 1948, ma pur essa nata tra equivoci e contraddizioni profonde: una rivoluzione culturale che ha definitivamente rimosso, al di là di patetiche, formali rappresentazioni di facciata, l’identità sociale e culturale di quell’Italia liberale e democratica che combatté la Grande guerra. Proprio la rottura del rapporto storico con lo Stato unitario in conseguenza della sconfitta del 1940-45 e l’avvento della democrazia repubblicana, dunque, hanno reso l’odierna identità italiana qualcosa di difficilmente comparabile con quella dell’Italia della Grande guerra, che in tal modo non costituisce più il suo piedistallo emotivo e mitologico. Insomma, con l’avvento della Repubblica, in Italia abortì, a differenza di altre nazioni culturalmente e ideologicamente più coese, il passaggio cruciale tra il liberalismo e la nuova liberaldemocrazia dal 1946 in poi, che il conflitto mondiale aveva messo dappertutto all’ordine del giorno.

In base a siffatti presupposti, sicuramente la Nazione è morta nel cuore degli italiani, è morta l’idea stessa di Nazione e con essa anche quella di Patria. Una Nazione incompiuta, una nazione mancata, uno Stato-non nazione di un Paese che, per le sue inadeguatezze, non è riuscito a farsi nazione e che sconta ancora oggi le sue tradizionali lacerazioni: una divisività che, come già si diceva innanzi, acquista una dimensione ideologico-politica, persino sistemica, strutturale, a carattere antropologico e culturale ed anche morale. Un Paese, dunque, con un colossale difetto di coscienza politica, caratterizzato dalla lontananza del popolo dallo Stato, in cui è troppo labile, se non proprio inesistente, il legame di appartenenza del popolo verso una ancora mal conosciuta Patria: l’inesorabile declino di una nazione, designata dal fato ad un destino di morte!

Si chiude così un loop tragico e grottesco allo stesso tempo, una riflessione a struttura circolare, così come nel film Pulp fiction di Quentin Tarantino, peraltro già richiamato in altra occasione, stante l’inizio tragico di questo excursus che si ricongiunge drammaticamente alla sua fine. Una pericolosa deriva ed una tangibile prospettiva di una moderna e irreversibile disunità nazionale, dunque, a distanza di oltre un secolo e mezzo dalla sua unità politica e dopo avere combattuto invano tante guerre dal quel fatidico 1848 in avanti: sono trascorsi cosi, in modo deteriore e come nulla fosse avvenuto, altri ottant’anni dall’ultima di esse!


di Francesco Giannubilo