giovedì 22 febbraio 2024
Con particolare sensibilità affronto, con una breve analisi, la questione delle Foibe e del confine nord-orientale. Ricordo che il partigiano Josip Broz Tito, meglio conosciuto come maresciallo Tito, non aveva dubbi su come dover agire dal punto di vista geostrategico. Infatti, in previsione di sedersi alla fine della Seconda guerra mondiale, o meglio “Seconda guerra intercontinentale”, al tavolo della Pace, aveva previsto di dichiarare che le terre slave erano abitate esclusivamente dal popolo slavo. In realtà, alla base della “italica tragedia”, una differenziazione di localizzazione tra italiani e slavi c’era: gli italiani storicamente, e da secoli, hanno sempre abitato la città di Fiume, la Venezia Giulia, le suggestive Istria e Dalmazia e molte zone costiere. Mentre gli slavi vivevano nell’entroterra, anche nella parte montuosa.
Molte pulizie etniche, più o meno riconosciute, hanno martoriato popoli e mutilato generazioni, ma quella che deflagrò contro gli italiani si caratterizzò con connotazioni politiche e militari. La complessità di tale strage era comunque talmente articolata che, chi poteva gestire la realtà dell’accaduto, preferì tentare di operare al fine di obliarne la memoria piuttosto che affrontare la tragicità dell’accaduto. Solo le esili testimonianze delle vittime hanno strenuamente mantenuto vivo il ricordo. Per decenni – anche nelle università non solo di Trieste – era interdetto lo svolgimento di una ricerca sui particolari avvenimenti accaduti sul confine nord-orientale e sulle Foibe. Nei testi di storia non si trovavano testimonianze. E quando mio padre, Onorio Fabbri (slavizzato Fabbricic), profugo istriano, alla fine degli anni Settanta me ne parlava, non riuscivo a comprendere perché una tale tragedia non fosse annoverata nei libri del Liceo. Inoltre, la comunicazione era ancora più complessa, a causa del fatto che chi parlava della “questione Foibe” era considerato di destra. Questo ha reso ancora più difficile trattare l’argomento.
Comunque, l’Esercito popolare di liberazione della Jugoslavia del maresciallo Tito, tra il 1943 ed il 1945, infoibò nelle gole carsiche almeno dieci/quindicimila italiani, forse anche di più, vivi o morti, legati tra loro con filo spinato; le motivazioni erano chiaramente etnico-politiche. Intanto tra trecento/trecentocinquantamila profughi, compreso il mio giovanissimo padre, erano stati costretti a lasciare casa, beni e il lavoro, come i miei nonni adottivi Guido Bartolini, direttore delle saline di Pola e la moglie Anna Gurioli (sorella di Caterina ostetrica madre di Onorio, deceduta poco dopo avere partorito mio padre). Tuttavia, non avevano alcuna certezza di poter avere salva la vita.
Generalmente, i profughi italiani non ebbero una calorosa accoglienza in Italia, tanto che furono tacciati, indiscriminatamente, di essere fascisti. Vennero parcellizzati in varie parti della Penisola. Restarono spesso collegati fra loro, caduti comunque nell’oblio della comunicazione di massa. In ogni modo, il maresciallo Tito quando ruppe la sua alleanza, quindi i rapporti, con il dittatore sovietico Iosif Stalin, diventò a quel punto un interlocutore privilegiato dell’Occidente. Quindi sarebbe stato inutile e magari dannoso, per la diplomazia internazionale, chiedergli conto di quanto era accaduto in Dalmazia e in Istria. Anche il Partito comunista italiano, nel quadro del Comintern o Terza Internazionale, che lo aveva visto alleato di Tito e favorevole a una espansione della Jugoslavia in tutto il nord Italia, chiaramente non aveva interesse che una tragica parte della storia fosse resa nota. Anzi la sua cancellazione della tragedia era opportuna. Ciononostante, il Pci, su indicazione di Stalin, modificò radicalmente la sua linea e diventò un partito nazionale.
Brevemente, la questione va letta nella costruzione della memoria della guerra e del Dopoguerra. L’Italia era stata sconfitta, e con la firma della pace di Parigi, del 10 febbraio 1947 dovette rinunciare alle terre sul confine nord-orientale, che così passano alla Jugoslavia con i noti accordi. La Resistenza, nella sua più ampia visione, permise ai partiti politici italiani di riuscire nell’operazione di “spacchettare” la guerra con i tedeschi, persa dall’esercito fascista del Duce, Benito Mussolini, dalla seconda parte del conflitto che sarebbe stato vinto insieme agli Alleati contro i tedeschi. Ovviamente, fu una scappatoia “pseudo storico-politica”, uno stratagemma storicamente discutibile, ma pose delle basi per una legittimazione che servì, intanto al Pci, per “ratificarsi” come forza democratica, ma fu di utilità fondamentale anche alla Democrazia cristiana, ai socialisti, ai liberali e repubblicani. Tutte forze politiche, poi raccolte, e rappresentate dal Comitato di liberazione nazionale (Cln) e unite nell’Arco costituzionale.
Però, questo “aggiustamento storico” in funzione politica non ha favorito né il riconoscimento dell’esistenza della tragedia della morte di tanti italiani, colpevoli solo di stare in qui territori, né la conoscenza del dramma sociale dell’esodo, perché nessun Paese vincitore, normalmente, perde territori e popolazione. La Giornata del Ricordo è stata istituita con decisione parlamentare nel 2004. Il Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, nel 2006, ha parlato degli esuli, proprio come il Capo dello Stato, Sergio Mattarella, che quest’anno ha suggellato la “questione” con una allocuzione lucida e di spessore. Il fattore imbarazzante è che, ancora oggi, non sia particolarmente lineare approcciare questa tematica; un esempio emblematico è stato l’articolo del Manifesto del 10 febbraio, titolato Il vittimismo che cancella le responsabilità; ma anche sparute osservazioni di alcuni soggetti pseudo-politici, che evidentemente privi di una minima conoscenza storica, forse per riesumare non so cosa, imbastiscono ragionamenti basati sulla non conoscenza o forse su residui di vetero dogmatismo politico, negando oppure attenuando il valore della “tragedia delle Foibe” o addirittura attribuendo ad “altri” l’azione infoibante.
Posso comprendere che, per ragioni politiche, i turchi neghino la pulizia etnica esercitata sul popolo armeno. Come intravedo il negazionismo su ciò che sta accadendo ai danni del popolo ucraino; per non indugiare, poi, su ebrei e palestinesi o su quanto accaduto in Ruanda nel 1994 nel genocidio ai danni dei tutsi e parte degli hutu, causato dall’esercito e dalle milizie paramilitari Interahamwe. Però negare, o attenuare, quanto accaduto al confine nord-orientale italiano mi sembra che si collochi o nella ignoranza storica o nel quadro di un dogmatismo politico, che ovviamente e obiettivamente, pensavo fosse stato sepolto.
di Fabio Marco Fabbri