mercoledì 21 febbraio 2024
Il filosofo britannico Simon Critchley, uno della new generation della filosofia divulgativa attraverso concetti identificativi nella popular culture (canzone, calcio, cinema), ripete spesso che il tribunale è fondamentalmente e sempre anche teatro. Le nevrosi e le tragedie che esprime, gli squarci farseschi in una giustizia che ha sempre meno pudicizia nell’additare il prossimo prima del procedimento, hanno in effetti un aspetto teatrale. Il tribunale, però, è teatro anche nel senso della commedia attica, quella che sottintendeva una pratica disvelativa contro gli inganni del potere. Il luogo della finzione diviene perciò il tempio laico nel quale si può dire che il re è nudo. E non solo: è lì proprio che il re stesso si vede nudo, deliberando la radiografia di una nazione.
La nostra drammatica parabasi era già scritta in un report della Commissione europea per l’efficacia della giustizia, che nel 2020 – su dati relativi al 2018 – classificava l’Italia all’ultimo posto per i tempi di risoluzione delle controversie civili. All’epoca, oltre sette anni. Il Portogallo, ancora non nel pieno delle dinamiche riformatrici che ne interesseranno gli aspetti procedurali negli anni successivi, era a poco meno di un anno. Certo: meno contenzioso. Qualche guasto di sistema, tuttavia, esiste: nei cinque anni succeduti da quel monitoraggio, tanto è in bene cambiato quanto alle sole tempistiche, ma è improbabile che si sia già in grado di valutare quantitativamente gli effetti della riforma Cartabia. Quest’ultima, nello stesso rito civile, sconta poi una serie di disagi applicativi soprattutto nei procedimenti relativi a persona e famiglia. A non voler dire del processo civile telematico che fu introdotto, con una certa fretta, in fase di stesura materiale dell’articolato finale, col decreto del Presidente della Repubblica numero 123 del 2001, ma che, oltre vent’anni dopo, lascia persistente l’amaro in bocca.
Se l’attività di difesa legale si è in effetti esasperantemente digitalizzata in più aspetti della procedura, professionisti e parti private non sembrano esserne contenti: né sulle tempistiche di soddisfazione dell’interesse, né nelle modalità tecniche del suo realizzarsi. Luci e ombre anche per la mediazione: la nostra cultura litigiosa ha accolto con molte resistenze l’obbligo di esperire tentate conciliazioni. Fatica poi a essere uniforme l’applicazione delle Mediation Rule della Camera di commercio internazionale, le quali non sono norme di trattato o di legge, perciò non hanno vincolatività diretta bensì forniscono indicazioni importanti sul contenzioso trans-nazionale di natura commerciale, ormai affidatario di un giro d’affari lucrativo e immediatamente producente sugli asset economici collettivi.
Il processo penale e il processo amministrativo non sono messi meglio, forse perché anche in quei casi lo strumento normativo di pungolo, modernizzazione e attualizzazione è stato sproporzionato all’esito conseguito. Le fattispecie penalistiche risentono, da tempo, di uno scivolamento coattivo nell’area emergenziale del penale antimafia, che pure dovrebbe essere della massima specialità: un modello attrattivo troppo grande, però, perché non se ne abusi in tutti i contesti. Il codice antimafia, già adottato col decreto legislativo numero 159 del 2011, della natura di codice ha poco: nato come testo unico di disposizioni appunto speciali, rimaneggiato con frequenza, rischia di diventare un paradigma buono per ogni circostanza. Consente di adoperare la prevenzione (quelle limitazioni di libertà personale e negoziale che non abbisognano né di reato né di processo) e si mette sopra il cappello della più integerrima rispettabilità anche quando è usato a sproposito.
È forse una parabola simile a quella del processo amministrativo. In Italia non esisteva, fino all’omologo decreto legislativo numero 104 del 2010, alcuna procedura tipica per le controversie delle Pubbliche amministrazioni, desunta sino ad allora – con tutti gli equilibrismi del caso, e gli istituti derogatori – dalla cognizione ordinaria nel giudizio civile. Anche lì, però, fonte non del tutto sistematica e difficilmente stabile, viste le frequenti modificazioni. E in più, l’eterno problema di non inflazionare ulteriormente un carico pendente senza ledere gli interessi privati e senza far precipitare nel vuoto l’efficacia decisionale dei provvedimenti delle Pubbliche amministrazioni.
Siamo in linea di massima d’accordo con Adam Smith: le società civili mettono la persona nella necessità positiva di cooperare continuamente col prossimo. Se la maggior parte dei consociati è in condizioni estreme, difficili, turbolente, quella stessa società, tuttavia, non potrà essere né più prospera, né più felice, né in fondo realmente civile. Cooperazione e felicità, evidentemente, e anche per colpa del legislatore dell’ultimo quindicennio, ben si guardano dal varcare la soglia d’ingresso nel padiglione di un tribunale.
di Domenico Bilotti