lunedì 19 febbraio 2024
“La peste si è spenta ma l’infezione serpeggia”
Quando ho letto che quest’anno a Sanremo non ci sarebbero stati monologhi ho sognato per la prima volta un Festival senza politica. Che ingenuo. Peggio di prima. Sanremo non è lo specchio del Paese né la sua fotografia: Sanremo è uno straordinario laboratorio politico; qualche banale pippotto intriso di inutile perbenismo, qualche falso profeta indottrinatore che ripulisce la coscienza collettiva delle categorie cui appartiene, tanta arroganza e violenza contenutistica. Come sempre, l’ipocrisia dei fari puntati ossessivamente solo sulle minoranze, minestroni in salsa woke e lgbtq esasperato fungono solo da specchietto per le allodole e, durante la settimana dell’Ariston, l’obiettivo è quello di testare e provocare reazioni con lo Ius soli oppure sperimentando la linea in politica estera, il famoso lodo Ghali.
Quest’anno la vera faida ideologica incarna una diatriba surreale: o con la Palestina o con dei pazzi genocidi. Dargen D’Amico e il suo compagno Ghali, appunto, hanno scambiato il palco dell’Ariston per un comizio pro-Palestina. “Il nostro silenzio è corresponsabilità”, “cessate il fuoco”. Per carità, non v’è dubbio che ognuno possa esprimere le sue idee come meglio crede; però – e siamo alle solite – teoricamente a Sanremo si dovrebbe andare per cantare, non per fare politica. Soprattutto se non si hanno le spalle abbastanza larghe e, non appena esplode la polemica, ci si tira indietro come ha fatto Dargen: “Io non volevo essere politico: in vita mia ho fatto tante cazzate ma mai quella di pensare di avvicinarmi alla politica”.
A Sanremo è andato in scena un vero e proprio blitz anti-Israele con tanto di cartelli propagandistici: in uno la bandiera della Palestina, in un altro la scritta “stop genocide” in riferimento al conflitto in corso nella Striscia di Gaza, messaggio rilanciato apertis verbis e senza mezzi termini anche da Ghali. Sul secondo palco, il richiamo “la vostra sicurezza non si trasformi in arroganza” che assomiglia tanto ad un’allusione alla risposta militare di Tel Aviv dopo il massacro di Hamas del 7 ottobre scorso. Manco fossimo a una manifestazione di Potere al Popolo. Ma, ancora una volta, che ingenuo idealista a pensare di guardare un Festival senza partiti: la musica era ben chiara fin dall’inizio, lo spartito messo ben in evidenza fin da quando lo stesso conduttore, nella conferenza d’apertura, ha intonato Bella ciao. Per quale motivo? Alla faccia di Tele-Meloni: mancavano solo i pugni chiusi e sarebbe diventato un qualsiasi comizio elettorale di Elly Schlein. Ma si sa, in Rai la sinistra scorrazza libera dall’alba dei tempi e, a Sanremo, se la suona e se la canta.
In un attimo ho riavvolto il nastro e sono tornato con la mente alle settimane immediatamente successive al massacro terroristico del 7 ottobre perpetrato da Hamas in Israele. E questo replay mi ha dato la cifra della meschinità di un’area ipocrita, telecomandata ideologicamente e lontana dalla realtà. Con i morti ancora caldi, dopo qualche giorno di finta solidarietà a suon di “viva la pace”, “la guerra fa schifo”, vicinanza a destra e a manca (a parole) – perché è così che fanno i settaristi del giusto – la sinistra nostrana aveva iniziato a esibirsi in uno spettacolo indecoroso e raccapricciante. “Né con Israele, né con Hamas”, la versione rivisitata dell’orrido “né con lo Stato, né con le Br”, slogan del Partito comunista italiano all’insorgere del terrorismo brigatista in Italia. Le clausole di salvaguardia che gli ignavi utilizzano per non prendere posizione apertamente, nel nome di una pace che in realtà sembra tanto l’appellativo dato all’odio antioccidentale, la negazione della propria identità e l’odio verso l’unico baluardo mediorientale che quei valori incarna e difende. “Né con, né con”. Non ha resistito nessuno da quella parte: il Campidoglio di Roberto Gualtieri addirittura esponeva le bandiere della pace e di Israele, una di fianco all’altra, in un ammodernamento del campo largo ideologico, in realtà era la cifra chiara di un certo opportunismo e della solita ipocrisia. E mentre mi sarei aspettato – che fesso! – che Israele ricevesse, indistintamente, vero appoggio senza che nessuno iniziasse a giocare con i “se” dell’ambiguità, i distinguo finto pacifisti sono cresciuti rapidamente tra antiamericanismo e antisionismo e si sono trasformati dapprima nella bieca retorica di chi condanna l’aggressore disarmando l’aggredito (come per l’Ucraina, tanto per Israele), poi, dilagando in tutta Europa, in una macchia l’odio antisemita.
E la sinistra nostrana non ha perso tempo, come sempre, a schierarsi dalla parte sbagliata della storia: contro l’Occidente e le libertà. Chi sono gli illiberali di casa nostra che disconoscono democrazia e libertà e la buttano sullo scontro tra fazioni? Sono i “pacifisti” italiani che occhieggiano i terroristi: qualche isolata frangia dell’estrema destra e un nutrito schieramento di partiti, associazioni e personalità di sinistra. Uno vicino all’altro e tutti accomunati da un concentrato ideologico fatto di antiamericanismo e anticapitalismo, di cui l’antisionismo rappresenta la logica conseguenza. È lo stesso grande melting pot che mai si è mai appassionato alla causa del popolo afghano stritolato dalle catene del fondamentalismo talebano, che mai ha battuto ciglio – insieme alle femministe nostrane che di quella roba non dicono nulla – in difesa delle donne iraniane che sfidano le rappresaglie dei mullah, che mai ha speso una parola per i cristiani armeni massacrati e cacciati dal Nagorno-Karabakh dalle milizie azere sostenute dalla Turchia. Gli stessi, addirittura, che giustificarono gli attentati dell’11 settembre 2001. E sono i medesimi che non hanno perso un attimo, dopo il 7 ottobre scorso, a pontificare in perbenese aulico di come la situazione fosse tanto complicata da non poter individuare in modo chiaro i torti e le ragioni, che le responsabilità fossero del governo israeliano, dell’Occidente, degli Usa e via dicendo. Sono quelli che hanno cercato ogni possibile scappatoia pur di non assumersi le responsabilità proprie di una democrazia liberale con l’obbligo morale (e, per di più, l’interesse nazionale) di correre in soccorso di un’altra grande democrazia liberale sorella dell’Italia, dell’Europa e dei Paesi occidentali. Sono quelli che hanno iniziato a parlare di dialogo “fra le parti”; e che importa se una delle due, Hamas, è un esercito di islamici radicalizzati che uccide in nome del proprio Dio, che si vanta della morte procurata e che vede lo sterminio degli altri come missione di vita.
“La peste si è spenta, ma l’infezione serpeggia” poiché “Auschwitz è fuori di noi, ma è anche intorno a noi”. E nulla cambia se i nazisti siano tedeschi di 100 anni fa o terroristi islamici che tengono sotto scacco la Palestina. Chiederei di alzare la mano a chi crede che, al di là di qualche altro squilibrato, l’antisemitismo oggi non sia a sinistra. E non quello che attiene al folclore da curva allo stadio, bensì quello ideologico che attecchisce in modo preoccupante da quelle parti ed è in grado di trasformare ogni 25 aprile nell’occasione giusta per mettere al rogo le bandiere di Israele. E che prende piede tra i giovanissimi, come quelli del gruppo “Curva Manzoni Antifa” del liceo Manzoni di Milano che gridano “quant’è bello quando brucia Tel Aviv” o quelli di Osa, il gruppo studentesco vicino a Potere al Popolo, che annuncia agitazioni studentesche nelle scuole di tutta Italia in solidarietà al popolo palestinese. Azioni non isolate, sempre più diffuse, fenomeni che rivelano quanto antisemitismo si coltivi a sinistra: non solo nei centri sociali ma anche nei collettivi studenteschi.
È pacifico intendersi sul fatto che il problema non siano quegli studenti: il problema è il pozzo dal quale si sono abbeverati; e sono le falde acquifere che alimentano una cultura egemone di estrema sinistra che ha deviato la formazione di troppe ragazze e troppi ragazzi facendo credere a tante generazioni che l’Occidente sia il male assoluto e che tutto ciò che gli si contrappone, il bene. La colpa non può essere di organizzazioni facinorose di sedicenni confusi e tumultuosi: è invece dei loro cattivi maestri, terroristi ideologici e civili perché è evidente che in una parte della sinistra il germe dell’antisemitismo abbia attecchito da decenni. In una rilettura di Amos Oz: “Prima della Seconda guerra mondiale sui muri d’Europa si leggeva sporchi ebrei tornate in Palestina”; oggi sui muri d’Europa si legge “sporchi ebrei fuori dalla Palestina”. Ci avremmo creduto, a 80 anni dal rastrellamento del Ghetto di Roma, se ci avessero detto che presto ci saremmo trovati di nuovo a contare il numero di ebrei attaccati e uccisi non solo in casa loro in Israele, ma in giro per l’Europa?
È la realtà di questi ultimi mesi e accade – con il rumoroso silenzio, il vergognoso tentativo di difesa da parte di fette di intellighenzie varie e note – nell’Occidente cieco, che non vuole accorgersi (o peggio, vuole favorire) l’attacco brutale ai nostri principi, alle nostre culture, alle nostre civiltà, al nostro modo di vivere che non dipende dai dogmi di una religione assassina ma dai valori di libertà che incarna l’Occidente. Piazze italiane ideologizzate e radicalizzate che fanno il tifo per il terrorismo inneggiando all’uccisione degli ebrei e alla Brigata Al Qassam, il braccio armato di Hamas, come se la cosa fosse normale; cori osceni, grida di stampo jihadista e antisemita di folle imbevute di odio: “Ci mangiamo gli ebrei”. Manifestazioni di finto pacifismo che si trasformano in cortei di sostegno di Hamas, stelle di David disegnate sulle porte delle case ebree a Parigi, bandiere israeliane strappate e date alle fiamme e bandiere di Hamas (quelle che portano gli stessi valori della svastica) sventolate ovunque nelle strade delle più grande città europee. Trasmissioni tivù con ospiti fiancheggiatori del terrorismo islamico che si lanciano in invettive contro Israele: il mainstream dei buoni per definizione che odiano sé stessi per essere dei cattivi occidentali, proprio come accaduto alla vigilia dell’invasione russa e che continua purtroppo ad accadere quotidianamente.
Retoriche aberranti e intrise di mistificazione e disinformazione che fanno breccia in un’opinione pubblica bombardata da lezioncine farlocche e stanca di dover prendere posizione su conflitti che appaiono lontani. E allora via col miglior offerente, viva la banalizzazione, la “pace” contro gli assassini d’Israele. Ma la banalizzazione non è la strada e il terrorismo non è mai lontano. La sinistra non si oppone: asseconda invece la dissonanza cognitiva dell’associazionismo rosso che, stracciandosi le vesti per i diritti della comunità lgbtq, scende in piazza con le bandiere arcobaleno per manifestare a favore della Palestina, dove l’omosessualità è illegale. No, la sinistra non si indigna: alimenta invece il cortocircuito dei violenti gruppi organizzati di nazi-femministe (le stesse che si divertono a piazzare ordigni nella sede di Pro Vita e Famiglia) che, senza spendere una parola di condanna per Hamas, in Italia sfilano sventolando le bandiere della Palestina contro il presunto patriarcato che, a detta loro, permea la società di casa nostra. E lo fanno senza la minima remora perché totalmente inconsapevoli di ciò per il quale protestano, del significato di una cosa che non hanno mai vissuto (il patriarcato che, in realtà, esiste davvero e che è inscindibile dal modo di vivere degli islamici radicalizzati) e del valore che la donna ha, per esempio, a Gaza. Si scorgono tratti di puro masochismo, per certi versi preoccupanti gesti d’autolesionismo, nell’atteggiamento dei filopalestinesi di casa nostra che si schierano contro gli israeliani accusandoli di una “risposta sproporzionata” contro le belve di Hamas. E quale sarebbe la sproporzione contro chi fa carne da macello dei tuoi bambini, stupra le tue donne, brucia vivi i tuoi nonni? Esecuzioni sommarie di civili fin dentro le loro case, rapimenti di minori, stupri di ragazze accanto ai cadaveri dei loro amici. Corpi gettati in pasto alla folla. Decapitazioni in diretta web. Il tutto mentre in Israele la polizia protegge dal linciaggio un membro di Hamas appena catturato per assicurarlo alla giustizia e in Palestina i corpi di bambini, anziani e donne israeliani vengono esposti come trofei.
Qual è la formula che possa definire il limite entro cui la vittima può reagire davanti a tanto orrore? E come si fa il paragone tra i morti dei raid terroristici cercati scientemente da Hamas per tagliargli la gola e i morti civili di Gaza, (tristissime) vittime collaterali della legittima risposta armata dell’aggredito? Chi fa i conti? Perché se è vero che la guerra è sempre una sconfitta, andare a caccia di bambini da uccidere scientemente, rapire e violentare anziani, versare così tanto sangue e procurare dolore esclusivamente per il gusto di farlo, è peggio. L’attacco di Hamas che tutti sembrano essersi dimenticati valica l’orrore della guerra e sconfina nella barbarie. È identica alla mano sanguinaria dei fondamentalisti islamici che più volte hanno attaccato l’Occidente. E, a onor del vero e a riprova del modo di pensare suicida di certa sinistra antioccidentale, anche in quelle occasioni non si erano fatti attendere i distinguo e chi chiedeva una risposta netta veniva accusato di essere razzista e di colpevolizzare tutti i musulmani. Ed è stato così che l’Europa ha preferito continuare a professare l’accoglienza indiscriminata e ad aprire le porte a chiunque sbarcasse sulle nostre coste o valicasse, anche illegalmente, i nostri confini. Ma nemmeno la tanto sbandierata integrazione ha dato i suoi frutti: e l’odio ha trovato terreno fertile, ha continuato a proliferare e non è stato estirpato dopo l’ondata di attacchi firmati da al Qaeda, e nemmeno dopo le atroci aggressioni dei terroristi dell’Isis. Sono rimaste identiche le distanze con i figli di immigrati di seconda e terza generazione, sono aumentate le “no go zone”, i quartieri a maggioranza islamica dove nemmeno le forze dell’ordine hanno accesso. E le banlieue nelle città dell’Europa settentrionale sono rimaste una pericolosa tana di radicalismo inestirpabile. Così, in barba ai buonisti, agli ultrà dell’accoglienza e alle toghe pro-migranti, tutti troppo preoccupati e concentrati sulla necessità di non eccedere in una “risposta sproporzionata”, il rischio è che l’Europa si trovi a dover subire una nuova jihad. Ogni giorno che passa, la lungimirante profezia di Oriana Fallaci su quello che sarebbe stato, dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, il mondo occidentale del futuro rispetto all’islamizzazione si fa sempre più reale e concreta. Chissà cosa scriverebbe, oggi, sapendo che in Italia i guru rossi dell’accoglienza indiscriminata si stracciano le vesti per un crocifisso in aula e, allo stesso tempo, in alcune università pubbliche (come la statale di Milano) promuovono e plaudono alla lettura del Corano.
E chissà cosa direbbe, oggi, se ascoltasse Ghali – che per fortuna sua è italiano (ma a causa di una strana tendenza oicofobica sente l’esigenza di denigrare tutto ciò che è identificabile come “nostro”) – disonorare sul palco dell’Ariston l’identitarietà di un capolavoro di Toto Cutugno definendosi italiano vero ma cantando in arabo e augurandosi, nel testo della canzone, un mondo senza frontiere e una Italia dove alla radio si recita il Corano.
L’islamizzazione dell’Europa va fermata; ma mentre la macelleria islamica lavora c’è chi vorrebbe ancora di più, per principio, aprire le porte dell’Italia (che sono anche quelle dell’Europa) a un mondo a noi ostile per scelta, cultura ed ideologia. E nel frattempo che i nostri intellettuali da jukebox insultano Israele e lanciano accuse infondate (con quale competenza tecnico-giuridica questi tizi parlano di genocidio su un palcoscenico della televisione pubblica?) a Davos, dove ogni anno si radunano miliardari, intellettuali, banchieri di tutto il mondo per parlare di ambiente, della salute, delle cose buone e belle, di tutti quei temi che fanno figo in un certo ambiente radical, nel cuore dell’Europa è comparso un cartello che non si vedeva da circa 90 anni: “Non si affitta attrezzatura sciistica agli ebrei”. Qualcuno lo ricordi ai giullari di Sanremo che hanno dimenticato che per i comizi politici ci sono i palchi delle campagne elettorali: il 7 ottobre scorso un gruppo terroristico che tiene sotto scacco un territorio intero ha massacrato scientemente migliaia di civili, centinaia di giovani che partecipavano pacificamente ad un festival musicale. E se dal Festival emerge una cosa sconcertante per davvero è che Ghali e D’Amico, al caldo delle loro case, nelle loro sparate da fenomeni da baraccone e menestrelli di partito non ne abbiano fatto cenno. Ma noi no, non possiamo accettare che nella nostra Italia, nel Paese dei nipoti di quanti hanno stilato le leggi razziali, si possa spacciare una tale propaganda antisraeliana in prima serata e sulla televisione pubblica. Perché genocidio è la distruzione sistemica di una popolazione, una stirpe, una etnia, una comunità religiosa. E i palestinesi, che hanno vissuto innumerevoli tragedie, mai da nessuno sono stati indicati come obiettivo da eliminare dalla faccia della terra; non c’è mai stato un genocidio palestinese. Ghali, D’Amico e tutti gli irretiti dei social dovrebbero documentarsi, studiare e capire che la nostra libertà dipende anche dalla comprensione delle parole che usiamo. È per questo più che condivisibile l’ira dell’ambasciatore israeliano a Roma, Alon Bar: “Vergognoso che il palco del Festival sia stato sfruttato per diffondere odio e provocazioni in modo superficiale e irresponsabile. Nella strage del 7 ottobre, tra le 2mila vittime, c’erano oltre 360 giovani trucidati e violentati nel corso del Nova Music Festival. Altri 40 di loro, sono stati rapiti e si trovano ancora nelle mani dei terroristi. Il Festival di Sanremo avrebbe potuto esprimere loro solidarietà. È un peccato che questo non sia accaduto”.
Quindi, senza ombra di dubbio, il miglior momento del Festival è stato l’ultimo, quello della domenica dopo la finale: il comunicato Rai che si dissocia dalle dichiarazioni vergognose che accusano di genocidio uno Stato democratico e libero che sta legittimamente rispondendo ad un massacro terroristico organizzato dai vicini di casa. Vorrei sentire le risposte dei cantori dell’Ariston e dei loro burattinai: se domani il confinante ci invadesse, portando via centinaia di donne, uomini e bambini, decapitando esseri umani, uccidendo chiunque incontrasse per strada, noi cosa dovremmo fare? Applaudire? Stringergli la mano e dargli le chiavi di casa? Sventolare bandiera bianca perché Viva la pace? Oggi la libertà dell’Occidente si difende sotto le mura di Gerusalemme. E quella di Israele non è una vendetta ma l’unico modo possibile di difendere democrazia e libertà anche per conto dell’Europa inerte, impegnata a sembrare “buona” ma tremolante. A nessuno piace la guerra e a nessuno piace l’idea che due milioni di persone siano senza acqua, senza luce, senza cibo, sotto la minaccia continua di saltare in aria. Tuttavia, bisogna ammettere che una reazione di questo tipo nasce dalla necessità di proteggersi e non è altro che la logica conseguenza di una aggressione: il pogrom del 7 ottobre impone a quel popolo di eliminare il suo nemico definitivamente, per continuare ad essere ed esistere.
A qualunque prezzo. Se il conflitto è nato nella maniera più vigliacca e inumana possibile, le conseguenze di questo atto criminale non possono essere fatte ricadere su Israele: al contrario della retorica genocida che alcuni vogliono cavalcare in modo strisciante, sia chiaro che la crociata non è contro nessun civile, contro nessun bambino, contro nessun innocente. La crociata è la missione per la libertà contro un manipolo di terroristi che usano la popolazione civile come scudo umano, contro le bestie che non accettano le tregue proposte da Israele per la liberazione in sicurezza degli ostaggi, per i bastardi che stabiliscono gli obiettivi militari negli edifici pubblici e che, su richiesta di Israele di evacuarli, non lo fanno. Hamas ha sulla coscienza ogni singola vittima civile innocente. Perché immagazzina munizioni nelle scuole. Colloca lanciamissili nei pressi delle moschee. Istruisce centri di comando negli ospedali. È stata Hamas a impedire l’arrivo degli aiuti della comunità internazionale; è stata Hamas a dire di non voler aprire il canale umanitario per far uscire i civili dalla striscia di Gaza (e continua a farlo a rilento, oggi); è Hamas che vuole tenerli lì, che bombarda i propri edifici pubblici perché vuole che nello scontro ci sia il massacro più ampio di civili da portare per sempre davanti l’opinione pubblica mondiale. Questo è il dramma. È Hamas ad utilizzare i palestinesi come scudo umano nei confronti di Israele. Che la pace sia un auspicio è accettabile sul piano della filosofia; poi c’è la realtà. E nessuno può dire ad Israele di non rispondere con forza.
Nessuno poteva dirlo agli Stati Uniti dopo Pearl Harbor. Nessuno poteva dirlo agli stati Uniti dopo l’11 settembre 2001. Nessuno ha potuto dirlo all’Ucraina. Tutti ci auguriamo che il conflitto duri un tempo limitato e che la diplomazia torni ad avere un ruolo (quando la comunità internazionale sarà chiamata ad imporre un negoziato con i palestinesi che porti in tempi brevissimi alla costituzione di un sacrosanto Stato di Palestina), ma dobbiamo essere consapevoli che ciò non sarà possibile prima della definitiva sconfitta militare di Hamas. No, non sarà possibile prima che Israele cancelli Hamas dalla faccia della terra per sempre, perché il “genocidio” cui i più si riferiscono senza sapere di cosa parlano è in realtà legittima difesa, diritto di contrattaccare per eliminare una volta per sempre la perdurante minaccia di questi macellai.
di Francesco Catera