lunedì 5 febbraio 2024
Vittorio Sgarbi è un genio. E nessuno riuscirà a convincermi del contrario. È un genio per la sua cultura enciclopedica che non riguarda solamente la storia dell’arte ma molto, molto, altro. Ne sa talmente tante che ancora non mi capacito come tutta quella sapienza possa soggiornare in una mente umana. Ma poi non è solamente il “quanto”: è come questa mole di conoscenza viene elargita ai più. Sgarbi ha una dote particolarissima, ovvero quella di prendere la complessità dello scibile umano, penetrarla per comprenderla nella sua totale essenza per poi renderla fruibile agli altri mediante un eloquio semplice ma non semplicistico, chiaro ma mai banale. I suoi ragionamenti rasentano la logicità allo stato puro, pur essendo a volte degli arabeschi con i quali rammenda il cielo e la terra. Solo lui riuscirebbe a trovare somiglianza e convergenze tra Piet Mondrian e Piero della Francesca, come tra Antonello da Messina e Lucio Fontana. Dicono, ad esempio, che il suo pezzo fluviale che appare la domenica su il Giornale lo scriva di getto (di getto!) senza il bisogno di dover ricontrollare date, nomi, fatti, situazioni disseminate nei secoli.
Ripeto: è un genio. Epperò il problema è che il genio è il sinonimo di perfezione, probabilmente è la forma più alta di acume e pensiero. Tuttavia la perfezione non si addice all’uomo, anzi, ne contraddice la sua intima natura. Siamo irrimediabilmente dei legni storti – sosteneva Immanuel Kant – che mai e poi mai potranno essere resi delle toghe perfette e lisce come una pesca. Il problema di Sgarbi sta tutto qui. È un’aporia vivente. Quel che è non può essere, poiché non compatibile con il suo (e il nostro) Io. E questo rende la sua figura per certi aspetti drammatica, un eroe destinato alla sconfitta eppure capace di fornire una morale e una giustificazione di senso a una simil tragedia greca.
di Luca Proietti Scorsoni