Filippo de Jorio ci racconta il rapporto tra Italia e Diccì

giovedì 4 gennaio 2024


È difficile nel caso di Filippo de Jorio stabilire dove finisca il docente di diritto ed inizi il politico. Abbiamo intervistato l’avvocato de Jorio in occasione dell’uscita del suo ultimo libro (titolo “Democrazia Cristiana”, sottotitolo “dall’apogeo, alla decadenza, all’epilogo”: Libri de “Il Borghese”). S’è rivelata occasione ghiotta per chiedere lumi sulla sua frase “ricordi e segreti dei tempi migliori per l’Italia e per noi”. Perché il giovane Filippo de Jorio ha collaborato sia con Fernando Tambroni che con Giulio Andreotti, poi con circa 40mila preferenze è stato più volte eletto nel Lazio. Oggi con più d’ottantotto primavere continua ad esercitare l’attività forense, non dismettendo l’interesse per la politica. Passiamo alle domande.

Secondo lei cosa rimpiange l’elettore italiano che ha conosciuto la cosiddetta Prima Repubblica? Cosa rimpiangono tutti, anche in non democristiani, della Diccì?

Ovviamente parliamo di elettori non più giovanissimi, che probabilmente possono asserire d’aver conosciuto un clima di partecipazione e rappresentatività politica. Insomma, quel clima di stretti rapporti tra eletti ed elettori che sottendeva molti ideali seriamente condivisi: l’aiuto ai deboli e ai bisognosi, il rispetto per gli anziani e per i pensionati, la promozione dei giovani, la ricerca continua di un lavoro per tutti, e ciò nel quadro dell’osservanza dei doveri cristiani. Si può dire senza tema di smentita che i risultati di questa presenza politica furono benefici, perché evitarono ogni crisi sistemica impedendo la presa di potere da parte del Partito Comunista, garantendo una elevazione senza precedenti del proletariato e del sottoproletariato urbano e rurale, come auspicava Don Sturzo. Con la creazione di una grande classe media ove ci fossero occasioni per tutti. Questo, si ripete, fino al momento in cui Ciriaco De Mita si impadroniva stabilmente del partito e cominciava a distruggere questa unità con i risultati che purtroppo conosciamo. Comunque, il confronto tra questo “ieri” confortante e l’“oggi”, che stiamo vivendo da qualche tempo, è drammatico.

Chi non vorrebbe un ritorno a forme di mutualità e partecipazione?

Sarebbe oltremodo scontato e banale incolpare una sorta di generico “potere” nazionale e sovranazionale. Atteniamoci a ciò che abbiamo davanti agli occhi: è ai partiti della “Seconda Repubblica” che fa troppa paura l’idea che possa ritornare sul proscenio politico l’“autentica” Democrazia Cristiana, con i suoi ideali, con le sue proposte e con una classe dirigente nuova, ma ancorata ai valori tradizionali dei cattolici impegnati in politica, in quanto gli italiani sarebbero messi di fronte ad un confronto che ben difficilmente potrebbe vedere i movimenti che hanno governato il nostro Paese nell’ultimo trentennio emergere vittoriosi nella scelta dell’opinione pubblica. Non va poi sottaciuto come, a partire degli anni Ottanta, si consolidava il disinteresse della Chiesa alla vita pubblica italiana: fenomeno che rimonta alla morte di Paolo VI, in quanto il suo successore, Giovanni Paolo II, era impegnato ad occuparsi di politica per liberare la natìa Polonia, e si dimostrava scarsamente interessato alle vicende politiche italiane.

Quindi lei sostiene che oggi è sarebbe necessario un ritorno all’impegno politico dei cattolici?

L’ho detto chiaramente nel mio libro Democrazia Cristiana. Nel corso del suo pontificato, Papa Ratzinger ricordava che la Chiesa venera tra i suoi santi, uomini e donne che hanno servito Dio mediante il loro generoso impegno nelle attività politiche e di governo. Tra di essi spicca San Tommaso Moro, patrono dei governanti e dei politici, giustiziato da Enrico VIII, in quanto non volle piegarsi ai voleri del re d’Inghilterra e rimase fermo difensore dei suoi principi di cristiano. Benedetto XVI poneva in rilievo come l’impegno politico dei cattolici fosse necessario perché, se è vero che l’uomo non si può separare da Dio, la politica non deve separarsi dalla morale, tanto che il pontefice concludeva auspicando la partecipazione dei cattolici alla difesa della libertà e della verità nelle attività afferenti alla “polis” e in tutte quelle civili. La gravità della situazione, lo stato disastroso a livello morale della società italiana esigono una presenza più attiva ed importante dei cattolici in politica.

Forse che il nemico della tradizione cattolica non è più il Pci? Non le sembra che l’avversario della sua Dc sia da ricercare oggi in chi ha sostituito la “lotta di classe” con quella di “genere”, in Italia come in tutto l’Occidente?

Questo è in gran parte vero. E sottolineo come il sempre proclamato intento della Dc sia stato creare una società senza classi, nella quale tutti i cittadini potevano godere degli stessi diritti, delle stesse opportunità, e nutrire delle aspirazioni importanti, quale che fosse la loro origine sociale. Questo disegno ieri si contrapponeva efficacemente a quello del Pci fondato sulla promozione e vittoria della classe operaia sulle altre; oggi la stessa battaglia le cosiddette sinistre la incentrano sulla lotta di generi.

Quando è iniziata la sua militanza politica?

Avevo 17 anni quando, nel 1950, incominciavo a frequentare l’Università degli studi di Roma. Entravo in contatto con il gruppo politico che faceva capo ad un economista che sarebbe diventato presidente del Consiglio, Giuseppe Pella, un uomo di impegno e di profonda fede. Con lui collaboravano dei religiosi di grande spessore intellettuale e morale come padre Antonio Messineo, S.J., autore per La Civiltà Cattolica, e monsignor Pietro Barbieri, direttore della rivista L’Idea, molto diffusa sia in ambienti cattolici, sia laici. Ero uno dei più giovani se non il più giovane degli iscritti alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Roma. Non avevo alcuna esperienza politica ma questi religiosi mi avvicinarono subito e mi portarono a conoscere Giuseppe Pella che era uno dei capi della corrente di centrodestra della Democrazia Cristiana che fu, poi, da leader del Governo omonimo, autore di uno dei pochissimi gesti di dignità nazionale di quegli anni, perché contro le minacce del maresciallo Tito, il sanguinario dittatore della Jugoslavia − e carnefice di tanti italiani oltre che di tutti i suoi oppositori politici − fece schierare l’esercito alla frontiera orientale. In questo incandescente clima politico, ebbi così la tessera della Democrazia Cristiana.

Lei reputa che qualche antico condizionamento o limite della politica sia sopravvissuto alla caduta della Prima Repubblica?

Va ricordata quella certa propinquità e vicinanza rispetto ai partiti di sinistra − Partito Comunista Italiano, Partito Socialista Italiano e Partito d’Azione − che si era stabilita nel Comitato di Liberazione Nazionale e che, per forza di cose, perdurava. Era sempre da quella parte che guardava la dirigenza della Democrazia Cristiana e non verso la destra che avrebbe molto più volentieri fornito i suoi voti parlamentari per sostenere i governi Dc. La subalternità ideologica alla cultura ed alle tesi della sinistra, come se essa fosse l’unica depositaria di una “verità rivelata” su tanti temi, e quindi che il partito dei cattolici dovesse in qualche modo di questo tener conto e imparare qualcosa da loro, era molto radicata e profonda. L’errore grossolano sembra perduri.

Ma allora chi ha salvato l’Italia dal Comunismo, il Vaticano o la Diccì?

La verità è che De Gasperi non fu il salvatore dell’Italia dal comunismo, come la “mitologia” che ci è cara ha sempre proclamato. Il nostro Paese, come anche la stessa Roma, furono salvati da quel grande Papa che era, nel contempo, anche un raffinato diplomatico ed un uomo capace di grandi decisioni, cioè Pio XII. Egli seppe coalizzare tutte le forze cattoliche, riunite insieme, in una grande crociata anticomunista che riuscì a vincere le elezioni del 18 aprile 1948, e l’avanzata − che pareva inarrestabile − del Pci. De Gasperi non aveva un grande genio politico perché, contro il suo stesso interesse e determinando la sua stessa caduta, non volle tenere in considerazione il parere quanto mai giusto del Papa.

Lei ha più volte sottolineato come il progetto di “rappacificazione nazionale” si sia interrotto nel 1960, spiegando come quella rappacificazione ci abbia fatto risorgere dopo la guerra e quindi realizzare il boom economico? Chi erano i nemici della rappacificazione?

Non c’erano solo nemici esterni come il Pci, ma anche nemici interni alla stessa Dc. La Democrazia Cristiana è soprattutto sempre prigioniera del proprio complesso di inferiorità nei confronti dell’estrema sinistra. Ecco da cosa nasceva la volontà di favorire la caduta del presidente del Consiglio Fernando Tambroni, costringendolo successivamente alle dimissioni. Da quel 19 luglio 1960 l’Italia non conoscerà più pace, e la belligeranza distruggerà impresa e classe dirigente col senso dello stato e della Patria.

Nell’intervista sarebbe il caso di omettere nomi ed aneddoti, per invogliare i tanti lettori ad acquistare “Democrazia Cristiana” di Filippo de Jorio. Ci può dire a quali altri ingredienti lei imputa la disaffezione degli italiani verso la politica?

Silvio Berlusconi in realtà è stato il promotore della massificazione della politica e della graduale estromissione delle persone dalla stessa. Ma l’esordio della Seconda Repubblica è figlio di “Mani Pulite”, che ha imposto regole processuali e di indagine in antitesi rispetto alla nostra Carta costituzionale estorcendo le confessioni con la tattica della carcerazione preventiva, creando la figura del “Pubblico Ministero-sceriffo”, che va sui giornali, che cerca l’applauso dell’opinione pubblica; antenato del Pm che fa politica, e non solo. Ha sterminato una classe dirigente, senza produrne una migliore. Infine, ha dato vita alle condizioni per l’ascesa al potere di vari avventurieri in politica. Gli unici che hanno tratto benefici da sciagure per il nostro Paese, come “Mani Pulite” e poi la fine della Diccì, sono stati i comunisti, che la magistratura ha, volontariamente risparmiato, per poi sottometterne gli “eredi”, ormai “appiattiti” sulla tesi dell’infallibilità del potere giudiziario.


di Ruggiero Capone