venerdì 22 dicembre 2023
Nella politica italiana le divinità nazionalsovraniste non ci sono più. Ciò che di troppo rischiosamente sovranista resta è rappresentato da una fetta minoritaria, e alla stessa Italexit non ci credono nemmeno coloro che la auspicano, e grazie al cielo. Prima di euroliberalizzare i servizi, in Italia stiamo procedendo ad euroliberalizzare i patriottismi. E grazie al cielo o, meglio, stavolta, grazie alla pragmatica coscienza sulla nostra amata patria. L’Europa che potrà venire dal 2024 potrà essere abitata da un’opportunità inedita di democrazia rappresentativa, da una speranza liberale di crescita, senza retoriche e senza politicamente corretto. Una via per avere gli attributi di governance di fronte alle potenze extraeuropee nel villaggio globale c’è. Ci sarebbe. Un assetto patriotticamente federale, libertario e securitario, dove la patria italiana (per quanto riguarda il nostro pezzo d’Europa) deve essere movente e fine del nostro stare assieme in Europa, attraverso un nuovo foedus, in un nuovo patto federale.
Si avvicina il Natale, e possiamo già coordinare gli auspici sulla scacchiera elastica e ancor confusa delle papabili patrie unite d’Europa. Un nuovo patto federale garantirebbe più efficienza nella difesa e nella sanità, nelle produzioni industriali e nelle infrastrutture, oltre che nelle applicazioni tecniche della ricerca scientifica. Dopo il fallimento di ratifica della Costituzione europea per via dei referendum francese e olandese nel 2005, non ci resta che alzare il tiro con un nuovo eurocostituzionalismo dalle cui coordinate valoriali, e tecniche, possano sorgere gli Stati Uniti. In Europa. Le patrie nazionali e con esse tutti i popoli federati ne terrebbero le redini, paradigmaticamente, partendo dalle esigenze in carne, ossa e spirito degli individui. Utopia?
Meglio parlare di necessità, e far di necessità virtù. Recentemente Mario Draghi ha detto che “o l’Europa agisce insieme e diventa un’unione più profonda, un’unione capace di esprimere una politica estera e una politica di difesa, oltre a tutte le politiche economiche. Oppure temo che l’Unione europea non sopravvivrà se non come mercato unico”. Non si tratta di un diktat, né di un ipse dixit. Un europeismo liberale e lavorista, patriotticamente federalista, smarcherebbe finalmente i diritti sociali dagli eccessi assistenzialisti che aumentano il debito pubblico disimplementando la produttività nonché, a monte, l’incontro della domanda con l’offerta di lavoro. Altroché assistenzialismo: la nuova dimensione dei Federal Welfare States sarebbe l’antitrust, con più equità nell’esercizio di libertà e concorrenza. Altroché asimmetrie nella difesa contro i terrorismi nazislamisti e contro le minacce neoimperialiste dei Paesi illiberali: ci sarebbero (anche) un esercito europeo e una politica federale d’integrazione sociale a presidiare la sicurezza, l’ordine pubblico occidentale e i diritti umani.
Non si tratta di fare i filantropi con la Pan-Europa del Kalergi, figlia del suo novecentesco tempo, né si tratta di santificare Draghi. In giuoco c’è il nostro futuro. In questa prima metà di secolo l’amor patrio è l’amore che l’Italia, patria italeuropea, può nutrire verso i propri interessi facendosi pioniera fattiva degli Stati Uniti d’Europa. Senza pregiudizi e senza etichette elettorali: dalla destra-centro alla sinistra, al netto di feticci ideologici. La stessa presidente del Consiglio Giorgia Meloni domenica, a Roma, durante il suo intervento ad Atreju ha detto che alle prossime elezioni europee i cittadini saranno messi di fronte alla scelta tra “una confederazione di nazioni libere e sovrane”, da un lato, e “un super Stato federalista che cancella le nazioni relegandole al ruolo di enti meramente amministrativi”, dall’altro lato. E fin qui potremmo aspettarci qualcosa di già sentito in un dualismo inconciliabile le cui due parti giuocano ruoli all’insegna della incomunicabilità.
Ma Meloni ha euroliberalizzato il suo discorso, nella sostanza ed al di là delle formalità linguistiche, e lo ha fatto pragmaticamente, aggiungendo quanto segue: “Non faccia l’Unione europea quello che le nazioni possono fare meglio e viceversa”. Da quel “viceversa” è facilmente evincibile che secondo la presidente del Consiglio – giustamente – le nazioni non debbano fare ciò che l’Europa può far meglio. Anzitutto perché ci conviene così, in termini di competitività e traffici economici. D’altronde, lo abbiamo visto nel periodo pandemico: per la sanità serve un piano europeo. Lo abbiamo visto per l’accatto di Vladimir Putin al popolo ucraino ed anche per l’attacco di Hamas al popolo d’Israele: per la difesa del nostro ordine pubblico occidentale fondato sulle libertà democratiche occorre una politica di difesa europea che ci assicuri la prevenzione delle stragi di matrice nazislamistica. Idem per le infrastrutture: vogliamo parlare delle infrastrutture ferroviarie del Sud d’Italia? Allora viva il Natale liberale, pragmatico, foriero di inedite bellezze patrie! Abbiamo tutto il 2024 per disvelare i destini senza predestinazioni, per l’Italia, e per le sue (le nostre) libertà. Brindiamo al futuro demolibertario che verrà. E poi mettiamoci a litigare per costruirlo, insieme.
di Luigi Trisolino