giovedì 14 dicembre 2023
Filippo de Jorio è prima di tutto un giurista, un filosofo, e poi un politico nel senso aristotelico del termine: usa la politica per lasciare buone opere, questo fa di lui un autentico democristiano. Nel suo Democrazia cristiana. Dall’apogeo, alla decadenza, all’epilogo. Ricordi e segreti dei tempi migliori per l’Italia e per noi (edizioni de I Libri del Borghese) ammette chiaramente che oggi manca quella corretta gestione democristiana della cosa pubblica, che negli anni della Diccì aveva come “fatto marcante di questa politica – spiega de Jorio – l’incentivazione alla proprietà della casa di abitazione. Sgravi fiscali, politica dei redditi, facilitazioni finanziarie di ogni genere furono il fulcro di questa azione che si rivelò estremamente utile per costruire un nuovo quadro sociale da cui la Dc ad estrarre voti per decenni”.
Il libro di fatto scandaglia le radici cristiane della democrazia, aprendo a un dibattito che non si può certo liquidare con la fine della Prima Repubblica o con il 1994, anno in cui la Diccì si smembrava (o si faceva smembrare) come la camicia di Cristo. L’autore di fatto considera come il Cristianesimo possa ancora rappresentare una delle forze storiche che aiutano a superare la crisi e la degenerazione della democrazia. Anzi, de Jorio porta l’esempio dei “Cinque Stelle” per dimostrare che la tragedia italiana, nata con Tangentopoli, consiste nel fatto che nessun nuovo partito sarebbe più riuscito a tutelare democrazia e socializzazione: non a caso l’autore parla delle politiche fiscali degli ultimi anni e l’immotivato autoritarismo. Così de Jorio constata come le democrazie occidentali attraversino una fase di crisi, correndo a grandi passi verso la degenerazione; e il rimedio proposto dal libro è l’aiuto cristiano alla gente, quell’equità sociale mai intrisa di lotta di classe (quindi anticomunista). Una Dc degasperiana che, di fatto, faceva proprie anche le istanze nazionaliste di Luigi Federzoni ed Alfredo Covelli, nella certezza che solo una rappacificazione nazionale (avversata dal Partito comunista italiano) avrebbe favorito una veloce ripresa economica negli anni ’50.
È ovvio che la rappacificazione fosse anche frutto dei rapporti tra Chiesa e politica, tra l’istituzione ecclesiastica e il regime politico democratico. Va detto che in tutto il Pianeta il Cristianesimo entrava in contatto con le più svariate forme di regime politico, e questo faceva del Vaticano l’appoggio principale alla Democrazia cristiana. Anche se la democrazia è sorta prima del Cristianesimo, ma in Italia non si può negare l’influenza cristiana nell’elaborazione della teoria democratica moderna e contemporanea. Così il libro di Filippo de Jorio è ulteriore conferma alle tesi di Jacques Maritain, che configurava nei partiti democristiani l’accreditamento degli ideali democratici agli occhi della cultura cristiana e, insieme, come un accreditamento del cristianesimo agli occhi di una cultura politica laica. Ma i laici nutrono profonde ambizioni, ecco che de Jorio ricorda come “si andava affermando l’egemonia di Amintore Fanfani, uomo di alte capacità, di sicura fede cattolica, ma ambiziosissimo, che dopo aver fatto per così dire ‘le scarpe’ al leader indiscusso della Dc, Alcide De Gasperi, fece in modo che Attilio Piccioni, che era il successore designato di quest’ultimo, si trovasse, senza alcun colpa, in una situazione politicamente disagevole, perché suo figlio Piero veniva ingiustamente accusato di complicità nell’omicidio di una giovane donna, Wilma Montesi, trovata morta sulla battigia del litorale di Torvaianica. Il giudice che indagava su questa vicenda, Raffaele Sepe (un amico di Fanfani), pilotò l’inchiesta per molti anni, e riuscì a ‘sterilizzare’ politicamente la presenza di Piccioni per il tramite delle accuse contro il figlio, che poi si rivelarono infondate”. Così l’autore dimostra come l’uso politico della giustizia affondi nelle “radici democratiche” del Belpaese. Spiegando anche come la “subalternità ideologica alla cultura ed alle tesi della sinistra” – come unica depositaria della verità – nasca nel Dopoguerra, una subalternità di cui soffre tuttora il centrodestra, che di fatto è un erede della Diccì. Soprattutto come “l’incubo del sorpasso” della sinistra (Pci in testa) abbia ieri condizionato le scelte della Dc e oggi quelle del centrodestra.
Ma la Democrazia cristiana era soprattutto prassi, ecco che l’autore racconta come Giulio Andreotti riteneva di poter usare i comunisti per governare ed i missini per raccogliere voti a destra (l’operazione Democrazia nazionale). Ma il sorpasso avveniva comunque, perché l’intelligenza di Enrico Berlinguer si dimostrava capace di sbaragliare la colta furbizia di Andreotti. Fatto che secondo l’autore apre le porte alla fine, consegnando la Diccì alla segreteria Ciriaco De Mita, uomo della sinistra democristiana legato agli industriali che finanziavano Pci e giornali contigui. Così de Jorio spiega anche dove nasce la ritrosia cattolica verso i Governi di destra o appoggiati a destra; nelle elezioni del 1953 Alfredo Covelli (fondatore del Partito nazionale monarchico) elegge quaranta deputati e il Msi ben 19, mentre la Diccì di De Gasperi cala da 305 a 263 (perde ben 42 seggi): le destre “avevano avuto un imprevedibile successo”, ma De Gasperi non aveva il coraggio di farsi appoggiare dalla destra per via dei suoi legami personali con il Cln (Comitato di liberazione nazionale) social-comunista. De Gasperi usava in maniera debole l’appoggio di Msi e monarchici, ma senza dare loro nulla in cambio, quindi “non ebbe il necessario suffragio del Parlamento e cadde”: in questa storia di settant’anni fa de Jorio ravvisa il germe della fine della Diccì poi ereditato da tutte le forze non di sinistra.
Unica variante rimane per l’autore il Governo di Fernando Tambroni che, prometteva al congresso Dc di guardare a sinistra, e poi apriva a missini e monarchici: l’Esecutivo cadeva per le dimissioni di tre ministri, e sotto la regia del solito Fanfani. Ma de Jorio considera “il 1960 e l’epilogo del Governo Tambroni come un crinale che cambiò la storia e la politica italiana. In peggio!”. Nell’opera racconta anche le peripezie che accompagnarono la restituzione della salma di Benito Mussolini alla famiglia, e come l’intervento del democristiano Adone Zoli avesse convinto i missini ad uno sguardo benevolo verso la Dc. Ma dopo il 1960 di fatto inizia una lunghissima agonia, vestendo di panni camaleontici i democristiani, perché i cattolici si fanno portare per mano verso le sinistre dai cosiddetti “preti modernisti”: ecco che de Jorio racconta come il cardinale Alfredo Ottaviani avesse diagnosticato nel corpo della Chiesa lo stesso male che stava corrodendo la Democrazia cristiana.
Nell’opera emerge come l’Italia venisse già allora dilaniata da lotte intestine che, col supporto di stampa e magistratura, cercavano di coinvolgere negli scandali Mariano Rumor e Toni Bisaglia: perché certa sinistra gradiva l’ascesa di Ciriaco De Mita. In cauda venenum, proprio l’invenzione del potere demitiano era funzionale a certi salotti per condizionare il Caf (accordo Craxi, Andreotti, Forlani) ma serbava in pectore anche il tramonto per via giudiziaria della Prima Repubblica.
L’autore racconta come Rumor e Bisaglia fossero persone di specchiata onestà, ma la politica editoriale scandalistica li voleva infangare e demonizzare per fare spazio a De Mita. Non che i democristiani fossero dei santi. Infatti, l’opera da ampio spazio ai peccati di alcuni seguaci della corrente di Giulio Andreotti. Di quest’ultimo giura sull’esistenza “di ‘due’ Giulio Andreotti. La prima rappresentata dall’uomo di destra cattolica, l’altra di un uomo di potere che non arretrava di fronte a qualsiasi atto, a qualsiasi compromesso, per osservarlo ed accrescerlo… Io fui amico e sostenitore del ‘primo’ Andreotti, e fermo oppositore del ‘secondo’” precisa de Jorio. E a conferma di come la fine della Diccì fosse cosa già segnata, l’autore ricorda la profezia di Aldo Moro contenuta nella lettera a Francesco Cossiga e Benigno Zaccagnini. Missiva scritta mentre l’ipocrita “linea della fermezza” di fatto condannava a morte lo statista in mano eversive.
L’opera spiega come il germe di una classe dirigente demitiana abbia contaminato tutta la politica italiana, generando politici che non sanno più difendere i diritti del popolo italiano, e nemmeno difendere gli imprenditori da un fisco famelico. Quasi che la parte pavida ed ignava a servizio della peggiore Democrazia Cristiana ancora condizioni i governi di sinistra, di centro e di destra.
Perché una nazione guarda anche al passato e alla tutela del patrimonio storico e culturale, soprattutto evita che un popolo venga perseguitato da una magistratura nemica del primato dell’industria italiana tanto caro a imprenditori e politici che favorirono il “boom economico”. Un regime democratico richiede pertanto un dialogo intenso al suo interno per l’individuazione del bene comune, cioè per la formulazione delle leggi non nemiche del popolo o calate in Italia per interessi stranieri. La democrazia è per l’autore un regime politico temporale, come tale affidato alla responsabilità del laico, ma un cristiano non può appoggiare politiche giudiziarie forcaiole che escludano il perdono ed il recupero. Soprattutto de Jorio concorda con lo scrivente sul fatto che tutte queste degenerazioni d’autorevolezza politica ci hanno ridotto ad essere un “Paese a sovranità limitata”: commissariati internamente dal partito dei giudici e con l’amministratore di sostegno a Bruxelles. Si consiglia il testo a chi pensa di darsi alla politica.
(*) Democrazia cristiana. Dall’apogeo, alla decadenza, all’epilogo. Ricordi e segreti di tempi migliori per l’Italia e per noi di Filippo de Jorio, I libri del Borghese, 180 pagine, 18 euro
di Ruggiero Capone