lunedì 4 dicembre 2023
Apoteosi di una diafana “Repubblica del Sud”
Si assiste spesso, da parte di una pubblicistica magari solo disaccorta, ma in alcuni casi cinicamente e demagogicamente in malafede, ad esaltanti giudizi sulla Repubblica nostrana, una stantia retorica di regime, un nuovo avatar che immancabilmente pecca di hybris, tesa a celebrarne qualità e virtù supreme, senza però apportare più efficaci argomentazioni che valgano a riposizionarla coerentemente in un quadro esegetico fondato su inoppugnabili coordinate idonee ad elaborare una proficua ricerca di più fruttuosi sbocchi di decongestionamento politico nella situazione di incupito clima da “Guerra civile” in atto. Perdipiù, siffatta impostazione elogiativa tout court si rivela assolutamente carente di una più robusta ispirazione etica – che non sia quella surreale, immaginaria, ossessiva e paradossale di un antifascismo in assenza di fascismo e di una mitopoiesi resistenziale, in cui la Resistenza viene intesa come il fatto rivoluzionario per eccellenza nella storia dell’Italia unita nonché come mito fondante della nazione e suo unico piedistallo emotivo di massa, ma in realtà funzionante come schermo protettivo utile a coprire le inadeguatezze di questa grigia Repubblica – oltre che di una seria prospettazione di crescita democratica e di maturazione istituzionale del Paese.
Com’è dato di constatare, è sussistente altresì – ma senza che vengano apportati efficaci elementi fattuali Ad adiuvàndum di siffatta tesi – una narrazione del “miracolo” della Repubblica, da accostare a quelli di Roma, del Rinascimento, del Risorgimento e del Regno, in quanto concretatasi questa in un luminoso ed unitario risultato finale, una sorta di armonioso embrassons-nous che, dando implicitamente per scontata la superiorità morale della Resistenza e di coloro che vi hanno combattuto, se inquadrati nelle file dei “rossi”, assolve in automatico, elevandoli a mito e fulgido esempio di patrie virtù, tutti i peccatori ancorché “assassini ideologici” della democrazia liberale in un Paese oscuro persino a sé stesso, in cui, fallito il passaggio cruciale tra liberalismo e liberaldemocrazia, anche il riformismo è diventato maledetto e impossibile. Orbene, a voler entrare più direttamente nella querelle, con le considerazioni che andranno via via ad esplicitarsi nel corso di questo excursus, che qua e là riprende e sistematizza anche alcune riflessioni già in precedenza svolte in vari scritti, s’intende confutare in radice, per facta concludentia – con tutti i distinguo del caso, similmente a quanto avvenuto da parte del grande storico liberale Rosario Romeo, in dibattito serrato con la storiografia di ispirazione marxista, con riguardo alle tesi gramsciane sul Risorgimento come rivoluzione agraria mancata – siffatta visione miracolistica dell’era repubblicana. In conseguenza, a parte personali propensioni che possano serbarsi per la forma di Governo repubblicano – costituzionale puro o costituzionale parlamentare – o per quello costituzionale parlamentare monarchico (dato che la forma di governo costituzionale puro monarchico non è più esistente), v’è che, al fine di fornire un verosimile paradigma interpretativo in ordine alla reale portata, in tutta la sua effettività storico-politica, dell’istituto repubblicano in atto nel nostro Paese, come rigoroso diagramma esegetico scevro da preclusioni ideologiche di sorta, occorre innanzitutto delineare, seppur succintamente, la sua genesi, onde pervenire ad un coerente quadro di successivi sviluppi fattuali nell’ambito della forma di Stato di democrazia classica occidentale.
Qualche cenno in più, seppur stringato, sulla mitopoietica antifascista e resistenziale come patrimonio esclusivo – una figurazione impossibile da storicizzare a pena di un suo snaturamento ad opera di forze “reazionarie” sempre in agguato – di una noumenica sinistra, affetta da un psicotico solipsismo autoreferenziale, costituisce comunque lo startup per i successivi sviluppi, condizionanti poi tutta la vita della Repubblica, data la indubbia connotazione della Resistenza come Guerra civile, ciò che non solo non la santifica ma introduce una ulteriore divisività nel clima di lotta perenne nella dicotomica storia della nazione. Un mito “inossidabile”, dunque, usato ancora oggi da un monstrum sinistroide – affetto patologicamente da una paranoide dissociazione cognitiva e da un sovraccarico disforico, ancora racchiuso in una sua macabra identità ora più che mai irrisolta e che non si preoccupa nemmeno più di dare un’immagine eulogica di sé dopo i vari tentativi comunque esplicati, con alterne fortune, negli ultimi decenni – come clava ideologica sia per tenere sempre “in armi” le così dette “forze democratiche” sia per screditare e lanciare accuse infamanti verso presunte forze reazionarie sempre agguerrite, ora materializzatesi con l’attuale compagine di governo; un modus operandi da guerra civile, in cui, rispolverando antiche memorie e fantasmi di un passato che sembrava essere stato per sempre seppellito, non esistono avversari legittimi ma solo nemici da distruggere.
Dalla guerra civile al referendum istituzionale del 2 giugno 1946, in cui le schede annullate furono ben oltre un milione e cinquecentomila e il cui responso fu proclamato con straordinaria fretta, il passo è stato breve. Sancendo la nascita non plebiscitaria della Repubblica italiana, ha rappresentato pur esso un gravissimo elemento di estrema divisività, che ha incrinato ab initio l’unità della nazione, creando lacerazioni profonde nel tessuto sociale, ciò che perdura tuttora, e condannando la neonata Repubblica ad entrare sin da allora nella cripta dei cappuccini. È alquanto probabile che la Monarchia avrebbe ottenuto la maggioranza dei consensi ove la sua preparazione si fosse svolta in condizioni di neutralità politica e senza la minaccia dei mitra lombardi. Votata così, sin da allora, ad un destino di morte, incominciava “l’angoscia mortale” della nuova, fragile Italia “democratica”, che, sovraccarica di odi e di veleni, voleva definitivamente dimenticare il suo Impero coloniale, il fascismo e le sue avventure, troppo ingombranti per la nuova classe politica, e che si serviva ora di carismatici narcisisti da palcoscenico, di rozzi soggetti affetti da cecità ideologica, trasformatisi da partigiani in nuovi “partigiani”, propagandisti e spesso sicari ossessionati dall’idea mortifera di avanzare nella storia nella stessa direzione del comunismo o illudendosi di cooperare con esso sotto il segno di Isaia. In tal modo, in siffatto contesto di mortale scontro ideologico, in cui erano in gioco i destini di una prostrata nazione, stante l’auge dello zoccolo più duro della subcultura comunista – peraltro in gran rispolvero ai nostri giorni e ora riproposta come un programma di “abbandono della disperazione” – che nulla aveva a che vedere con i valori dello Stato di diritto e della tradizione liberaldemocratica, e dopo la così detta “svolta di Salerno”, solo una fase tattica di conquista del potere da parte di un Palmiro Togliatti, perfetto stalinista fino alla fine, prendeva forma e sostanza uno strampalato impianto costituzionale repubblicano.
Ben presto, però, l’apparente unitarietà di intenti tesa a dar vita alla Costituzione repubblicana si sfaldava per l’emergere di un antagonismo assolutamente inconciliabile tra opposti modelli nazionali, che aveva radici in una equivoca, torbida visione degli scopi da parte dei protagonisti della Resistenza, che soltanto una meschina, miope e interessata trasfigurazione mitopoietica operata dalla Sinistra portava a mitizzare come un “secondo Risorgimento”, un compatto zoccolo ideologico tuttora persistente e duro a morire. In conseguenza, la nostra Costituzione, presentata come frutto superbo della vittoria del popolo e di una epopea di libertà, nata da una ambigua visione degli scopi resistenziali e frutto di un compromesso, ne porta le stimmate, vere e proprie tare ereditarie, deturpata com’è da grosse “voglie di topo” che le sfigurano le sembianze, tare che sin da allora l’eminente giurista Pietro Calamandrei, come già riportato in altro scritto, così evidenziava: “Per compensare le forze di sinistra della rivoluzione mancata, le forze di destra e della Dc non si opposero ad accogliere nella Costituzione una rivoluzione promessa”. Bella scoperta, dunque, quella Costituzione nata così! Germinata da un compromesso, ma non come accordo nel senso profondo su un idem sentire de Republica, ma un compromesso negativo, una soluzione del tutto incoerente e assai discutibile, un compromesso altamente deteriore dettato da motivi contingenti e basato su macroscopici equivoci e contraddizioni profonde tra i partiti, determinato appunto dal fatto che i partiti della cosiddetta “esarchia” facente capo al Cln, erano tutti, ad eccezione del Partito liberale, ben lontani o addirittura antitetici al liberalismo classico e al costituzionalismo della liberaldemocrazia occidentale.
È proprio da questa “malformazione congenita” che hanno preso corpo gli equivoci della nostra democrazia – su cui, come ho pure scritto, è scesa una evanescente ombra lunatica – con la sua Carta costituzionale di cui mena vanto, solo apparentemente liberale, ma nata in realtà da una grave sconfitta del liberalismo storico, una sfigurata, sfregiata democrazia con tanto di verde tartaro in bocca, che, quando sorride, mostra una fila di denti radi, guasti, piccoli e puntuti, la democrazia di un Paese sprofondato in una palude maleodorante. Spesso, troppo spesso, i tantissimi “intellettuali di corte”, corifei e lacchè di regime, si sono abbandonati – e, nonostante tutto, continuano a farlo – ad esaltazioni mitologiche di quel prodotto, trasformando in oggetto di culto parareligioso un mero strumento di idolatria di diritti piuttosto che di garanzia degli stessi. Lo stesso Luigi Sturzo avvertiva che “l’ingerenza dello Stato sarà tale... che il cittadino dovrà cominciare a pensare come difendersi dallo Stato che si va creando”; e così Gaetano Salvemini: “Da quelle scempiaggini sta per uscire la Costituzione più scema che sia mai stata prodotta dai cretini di tutta la storia dell’umanità”!
In effetti, a confronto dei “titani” della Roma imperiale, del Rinascimento, del Risorgimento, del Regno e di quell’età liberale, questi erano solo dei “nani”, che incarnavano il grigiore dell’edificio che costruivano! Un infausto quadro genetico quello del nostro “mitico” assetto costituzionale, dunque, che ha costituito la base di una mastodontica proliferazione burocratica e di una spropositata centralizzazione della politica: un moloch inesorabile, un monstrum fagocitatore di risorse, di uomini e di intelligenze, in cui l’individuo è stato pensato solo come appartenente a vasti insiemi; l’alfa e l’omega costituzionale in cui l’iniziativa individuale, l’originalità, l’autonomia personale, in altri termini tutti i valori liberali, contavano molto poco. Scardinato così il cardine primario del costituzionalismo liberale della separazione e limitazione dei poteri, una mostruosa Autorità governante, la principale dissipatrice della ricchezza nazionale, ha consentito allo Stato di diventare padrone di tutto e di tutti; a dispetto della formale struttura liberaldemocratica di facciata della Carta, in realtà sono state aperte le porte ad un modello sostanzialmente collettivistico, una sindrome da “democrazia livellata”, una sorta di social-liberismo, che aveva ben poco di liberale, un sedicente liberalismo di matrice socialista di gobettiana memoria, che realizzava praticamente suggestioni e valori del comunismo: il sogno utopico di una “società di eguali”, teso a fagocitare lo sprovveduto interlocutore, imbrigliandolo in una melassa apparentemente dialogante che ipostatizzava il bene insito nell’ideologia dell’eguaglianza.
Insomma, il convincimento della stragrande maggioranza dei costituenti, elevati a “padri della Patria”, era quello che lo “Stato sociale” dovesse superare lo “Stato di diritto” nello sviluppo storico, cosicché l’individuo, dotato solo di diritti formali concessi dall’alto, è impunemente schiacciato dall’autorità. Cosicché, se i partiti hanno potuto appropriarsi del potere in un sistema di corruzione, di sottogoverno, di teratologica e ipertrofica proliferazione di rendite politiche, una tragica realtà di abnorme spreco di risorse pubbliche, se le forme di “economia pubblica” sono diventate vertiginosamente simili a quelle di un sistema politico di “socialismo reale”, se è annullato il potere decisionale a causa della debolezza dell’esecutivo, se è fallita la divisione dei poteri, peraltro a vantaggio di un inaudito strapotere giudiziario e a scapito di un popolo succube, se è esploso il cancro della “rendita politica” parassitaria (Gianfranco Miglio) e dei profitti da “coercizione politica” (Constant, Burke, von Humboldt ed altri) e della crescita smisurata della spesa e del debito pubblico, tutto ciò grazie proprio all’impianto costituzionale del 1948, un sistema marcio e decrepito fondato appunto su una Costituzione illiberale, ciò che non consente di difenderci da latrocini e scorrerie. Ci asteniamo, per svariati ovvi motivi, da ulteriori considerazioni in ordine agli enunciati di alcuni pregnanti articoli, ad esempio gli articoli 3 e 4, da cui si evidenzia una straordinaria coincidenza con la coeva Costituzione dell’allora Urss, anch’essa con dodici articoli basilari sulla struttura della società!
Da quella infausta stagione ha preso avvio una lunga, lugubre linea rossa partita da lontano, dalla svolta di Salerno del 1944 appunto, che si è dipanata per tutto l’arco della Repubblica – è tuttora in atto più pericolosa che mai ad opera di un “cerbero” assetato di sangue e di vendetta – descrivendo l’intero itinerario del Partito comunista italiano, il più grande di tutto l’Occidente, che via via mutava la sua denominazione e adattava le sue strategie di lotta e di metastatica infiltrazione in tutti gli ambiti – da quello della cultura a quelli delle istituzione, degli enti e di tutti i settori della società – ed occupava tutti gli spazi di potere, di sottopotere e di ogni suo recesso, che proprio l’indulgenza collettiva, assimilatane l’aspirazione rivoluzionaria unita ad una sorta di rassegnata, ineluttabile idea di “condanna a morte” della nazione, gli ha consentito. A differenza delle forze liberali e comunque di quelle a vario modo avverse alla sinistra, le quali non sono riuscite ad elaborare specifici ed efficaci piani di contrasto, la messa in atto invece, da parte della sinistra comunista, paracomunista e postcomunista, di una arguta azione strategica di medio-lungo periodo basata sul paranoico principio gramsciano di egemonia culturale, il cui fine ultimo era e rimane la conquista del monopolio del potere politico ovvero la dittatura da sinistra, quindi la conquista dello Stato e di tutti i suoi apparati – amministrativi, giurisdizionali, educativi – peraltro riuscendovi egregiamente, nonché del mondo della cultura e della società civile che dietro lo Stato si occulta.
In siffatta ottica di sfaldamento e di conquista dello Stato borghese, non v’è dubbio che il togliattiano “partito nuovo”, che nuovo non è stato mai né in fondo lo è tuttora, il quale ha usufruito di finanziamenti in nero sia direttamente dall’Unione Sovietica sia dai Paesi dell’Est tramite le cooperative rosse, abbia avuto forme di contiguità e di copertura, per una lunga fase, con il terrorismo di sinistra, il fenomeno più conturbante della vita repubblicana: di certo, come scrisse pure Rossana Rossanda, le Br appartenevano “all’album di famiglia” del Pci! Un quadro fosco in nome di un’ideologia virulenta e di un delirante teorema diagnostico-terapeutico, quello comunista, un’Utopia chiliastica, l’enigma della storia finalmente risolto, l’avvento del “Regno di Dio senza Dio” e del realizzarsi dell’evento palingenetico della rivoluzione comunista come purificazione del mondo esistente: il mito del “Salvatore-Salvato”. Tutto ciò ha avvelenato, con i suoi farneticanti miasmi rivoluzionari e la sua inflessibile teorizzazione del “Paradiso in terra”, tutta la storia di questa cupa Repubblica, tutt’altro che “miracolosa”, ed ora ripresa alla grande – a fronte dell’attuale Autorità governante, legittimamente eletta da un popolo sfibrato ma non ancora del tutto impotente – come “sanguinario” paradigma sovversivo, da un insano entourage con tutti i putridi “scarafaggi” al suo servizio.
Lo so che il mio, ma credo anche di tantissimi liberali lato sensu, è, anche a costo “dell’esilio nel deserto”, un giudizio tranchant sull’operato dell’attuale establishment della sinistra nostrana, in cui la magna pars spetta al “nuovo” Pd schleiniano unitamente agli sciacalli politico-sindacali che le fanno da battipista e da “tappeto rosso”, atteso che è in atto ictu oculi soltanto uno squallido scenario da operetta triste innestatasi in una insanabile faglia socio–politica e di una becera riproduzione di un inquietante, deleterio spettacolo di “prove d’orchestra” da “biennio rosso”, di lontana ma anche di più vicina memoria. Ad ogni buon conto, il Pci riusciva ad attraversare indenne l’epoca del centrismo, con la sua esclusione, nel 1947, dalla coalizione governativa ad opera di Alcide De Gasperi – verso cui l’Italia ha un lungo silenzio da colmare e un debito da saldare – e proseguita con i successivi governi degasperiani e scelbiani; né l’aperura a sinistra, un quindicennio più tardi, con il quarto Governo Fanfani e il successivo Governo Moro, a cui si opponeva tenacemente solo il liberale Malagodi, scontentava più di tanto i comunisti, dato che oltre all’ala autonomista dei socialisti guidata da Nenni, ne faceva parte anche quella così detta carrista, la quale, succube del Pci, brigava per continuare a tenere il partito in posizione di subordinazione nei confronti dei comunisti.
Aveva visto bene il leader liberale, poiché quella fase fu soltanto prodromica al successivo passaggio, poco più di un decennio dopo, al compromesso storico e alla politica della “solidarietà nazionale”, che non solo rafforzava il Pci sdoganandolo dalla conventio ad excludendum, ma gli consentiva anche una profonda penetrazione nella macchina dell’amministrazione pubblica e l’occupazione di tutta l’arena del potere, condividendo così il sistema clientelare della Dc ed estendendo il suo controllo anche alla Magistratura. Proprio con “Magistratura democratica” il Pci intrecciava solidi legami, cosicché esso potè sfuggire a qualsiasi condanna per i finanziamenti illeciti provenienti dall’Urss e dai Paesi comunisti; questa, più tardi, in una deriva giustizialista, assolvendo il partito da ogni colpa al fine di mandarlo in solitudine al Governo del Paese, avrebbe tolto di mezzo gli avversari, prima Craxi e poi Berlusconi, presentati, assieme alla Dc, come bande di delinquenti da processare in pubblico e nei tribunali attraverso le procure della Repubblica, resi luoghi di turpe spettacolo da offrire al rancoroso popolo di sinistra, assetato di odio e di vendetta. Però, sebbene “Mani pulite” fosse diventata l’esecutore legale della condanna a morte della prima Repubblica, non si sarebbe mai approdati alla “terra promessa” della seconda Repubblica, talché dalle miserie della prima Repubblica a quelle di una paranoica, fantomatica seconda Repubblica il passo è stato veramente breve. Il capitolo sulla Magistratura meriterebbe pagine e pagine a parte, ma a voler chiudere sul punto, giova soltanto rilevare come fosse profondamente erronea la mia deduzione di quasi un quindicennio addietro, allorquando scrivevo con riferimento al Potere Giudiziario: “Alcuni suoi magistrati inquirenti, che, a parte una pur facile credenza circa una loro volontà di conquista del potere per conto della sinistra, ritengono di assumere il ruolo di tribuni della plebe”. Invece, era ed è tuttora proprio così! Se fino a “ieri” tutte le battaglie sono state portate avanti in nome dell’anticraxismo e dell’antiberlusconismo, oggi, rozzamente manovrate dal Pd e soci, sono condotte in nome dell’antisalvinismo e in genere della govenance in atto. V’è che, con le rivelazioni del caso Palamara, in qualsiasi altro Paese più o meno civile sarebbe scoppiato un “terremoto” istituzionale che avrebbe coinvolto buona parte della magistratura. Invece, è sceso un velo nero!
Né nel corso dei decenni, per colpa di una sinistra dall’anima nostalgica e disperata, l’alternanza democratica è stata in grado di funzionare: una democrazia bloccata in cui, per la necessità di salvare il salvabile, è mancato la possibilità di uno swing of pendulum, tipico di una compiuta democrazia liberale occidentale. Una liberaldemocrazia portata al patibolo, una metastatizzazione dello Stato, della cultura e dalla politica, in un Paese infermo con la sua stuprata democrazia di un popolo malato ricacciatosi nel limbo dei popoli inquieti e imbroglioni, una Repubblica spesso cleptocratica e ideologicamente cripto-socialcomunista in cui continuano a prosperare aspiranti becchini della democrazia liberale e un pidocchiume affamato che annaspa nella putrida palude del malaffare; un’Italia distratta e qualsiasi, patria del diritto ma anche del rovescio, una tragicommedia della politica e del costume dilagata in una trivialità senza limiti. Questo, e soltanto questo il quadro realista e impietoso di questa plumbea Repubblica di una nazione incompiuta, uno Stato non nazione! Cosicché noi italiani continuiamo a vivere in un Paese di sole due stanze. La prima è un manicomio, in cui si aggirano i matti, proprio quegli squallidi personaggi responsabili di aver ridotto il nostro Paese nei due ambienti che sono adesso.
E io, o meglio noi liberali aventi a base un “principio di realtà” e da non tardi idealisti “in libera uscita”, sconfortati, ma dando l’impressione di divertirci seriamente, guardiamo vivere i matti in quel manicomio, così come gli abitanti della seconda stanza. Ma non è una vera e propria stanza bensì una lunga, ininterrotta e maleodorante galleria, in verità somigliante ad una putrida cloaca, di tutte le nefandezze politiche e burocratiche, partitiche e sindacali, di poteri e sottopoteri opprimenti e tentacolari, di svolazzanti “drappi rossi” idolatranti solo diritti umani, di giornali genuflessi e di volti arcigni di magistrati, vip protagonisti e gendarmi del regime che ha ammorbato questa Repubblica per decenni, di intellettuali e di paludate aule accademiche votati alla “truffa intellettuale” del neoilluministico ideologismo sinistroide, di parassitari enti e apparati pubblici pure essi alla mammella del moloch Stato. Insomma, tutti i mostriciattoli prodotti dell’italica cultura del parassitismo politico e del sottobosco dell’assistenzialismo, dell’intrallazzo e della furberia, frutto avvelenato della teoria e dello statalismo di marca socialcomunista, si sono aggirati, volendo continuare tuttora a farlo, sordidi e famelici, in questo abietto tunnel di cui non si vede la luce. Una lunghissima teoria di “oggetti” che non appena sono alla fine della loro stessa protuberanza, in realtà non sono che all’inizio di quel mondo maleodorante che non ha né capo né coda, e che assume la conformazione, la dinamica, l’orografia e la grammatica di una nazione ancora incompiuta convulsamente al collasso.
Non vogliamo entrare né sostare in nessuna di quelle due stanze e così cerchiamo una terza stanza, una stanza che poi è la nostra coscienza di “persone in viaggio”, in cui trovare una finestra per poter guardare fuori, ma l’impressione è che quella finestra sia ancora murata per via di un regime che ha occupato tutto. È questo, dunque, l’armamentario dolorosissimo della Repubblica di questo Paese in cui viviamo da anni, nel quale io, o meglio noi avevamo creduto di poter giocare seriamente senza sporcarci le mani e offendere la nostra stessa coscienza. Ma non riuscendo a convivere né col manicomio né con la fogna, sperando che d’ora in poi si reagisca con vigoria alla valanga di immondizia che ci viene scaricata addosso, ringraziamo Dio che ci lascia almeno protestare per tutte le schifezze con le quali non intendiamo fare amicizia alcuna. Mai tragedia e farsa, un impiastro democratico da Repubblica del Sud, sono state così vicine in questo Paese! Il 1991 non è stato per noi la fine di un secolo, poiché i meccanismi perversi che hanno impregnato la nostra società non si sono affatto esauriti, ma, malgrado tutto, per colpa di un monstrum ideologico ancora in vita, sono tuttora in opera. Nascosto di fronte a noi, in mezzo al nostro cammino, c’è forse qualcosa di peggiore?
di Francesco Giannubilo