La fiamma liberale contro il populisticamente corretto

mercoledì 25 ottobre 2023


Promuovere le libertà oltre il buonisticamente corretto, contro gli attacchi egemonici di chi ce vole male

La dittatura del populisticamente corretto – e del buonisticamente corretto – ha corrotto la fiamma liberale delle intelligenze politiche, nell’ultimo decennio, con qualche tentativo riformista che qua e là ha cercato di proporsi, o imporsi, con voci spesso solitarie sedute al di fuori dei cori del “non si può”. E invece agevolare, curare e agiare la libertà degli individui nelle comunità si può: si deve. La lotta garantista contro le egemonie delle decrescite, da un lato, e la democrazia, dall’altro, non possono divaricare i propri terreni d’azione; la lotta alla decrescita e la democrazia devono stare insieme, senza se e senza ma. Il superamento dei fanatismi e dei lassismi anti-industriali va coltivato normativamente all’interno di una cornice costituzionale di fiducia nella sovranità popolare, curando al contempo l’interesse pubblico e lo sviluppo anti-lobbystico dei privati, di chi la mattina si alza per organizzare e produrre Pil, con una classe dirigente pubblica all’altezza della semplificazione, dell’innovazione e della sburocratizzazione. Il nuovo Codice degli appalti del 2023, non a caso, si muove nel senso della fiducia degli apparati pubblici verso i privati, per favorire la libera e cosciente concorrenza, nonché – si spera! – le opere di esternalizzazione per l’efficientamento produttivo della patria italeuropea. Per la buona riuscita dell’impresa occorre la partecipazione onorata di ogni operatore, ciascuno col suo.

Ogni riformista liberale non può prescindere dal consenso popolare, né dalle esigenze concrete delle famiglie, delle persone in carne, ossa e spirito. Una politica liberale, in uno Stato liberale, è possibile soltanto se la cultura mediatica non ostacola l’azione paradigmatica dei governi. Questi, attraverso politiche che stimolino la produttività delle imprese e conseguentemente le assunzioni di lavoratori, hanno l’arduo ma realistico compito di accrescere la circolazione di beni e servizi, capitali e ricchezza, fornendo ai cittadini quegli strumenti civici – come il potere d’acquisto! – per l’altro sviluppo possibile. Dopo l’altromondismo, è tempo di altrosviluppismo. Per fare grandi le vite concrete degli italiani non abbiamo bisogno di ricette meramente assistenziali, bensì di un progresso liberomercatale e antitrustizzato: per una nuova frontiera della sociabilità in cui produzione industriale di ampio respiro, reti infrastrutturali, detassazioni, incentivi, merito-metrie e diritti sociali diventino facce razionali, serie, empiriche di un medesimo cubo politico.

Non ci sono diritti sociali senza libertà economiche antitrustizzate, e senza quel grandioso principio costituzionale che è la sussidiarietà orizzontale, la quale sviluppa le coordinate di fiducia pubblica verso le opere dei privati. Il principio di sussidiarietà orizzontale lo troviamo nel quarto (ultimo) comma dell’articolo 118 della Costituzione italiana. Quest’ultimo sancisce che Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base (appunto) del principio di sussidiarietà. Con una perversione nei metodi della tradizione liberal-democratica, abbiamo vissuto invece tempi che possiamo definire di dittatura del populisticamente corretto. I populismi del nuovo millennio sono partiti con una subcultura retorica diffusasi prima a livello sociologico, poi divenuta fenomeno politico, successivamente trasformatasi in potere con tutti gli annessi e connessi delle statolatrie, e infine – da ultimo – ritornata fenomeno sociologico-mediatico. I populismi dell’improduttivismo, ormai, sono logorati dai propri fallimenti e dalla dissoluzione delle proprie cariche d’ingenuità messianica. Siamo ora nel tempo del post-populismo, o del populismo ferito, il cui modello di cittadino è quel cittadino che deve solo tirare a campare, senza arte né parte. Eppur si vive una volta sola, in questa dimensione terrena, e le libertà di crescita nelle pari opportunità, senza predestinazioni e senza illibertari ostacoli sono parte integrante di quel tessuto di diritti umani occidentali, concreti, a cui una società liberale progredita non può sottrarsi. Serve cultura, serve fiducia tra il pubblico e il privato. Certamente non servono sterili vaffanculismi, né ideologici estremismi.

Dopo le elezioni politiche del 2008, infatti, in una società italiana provata da una grossa crisi finanziaria internazionale, una parte dell’antiberlusconismo divenne vaffanculismo. E il “vaffa” venne ad abitare in mezzo a noi, non come strumento pannelliano d’espressioni libertarie pure e liberal-democratiche, bensì come strumento preliminare al fango, al pressappochismo. Il vaffanculismo illibertario, da legittimo fenomeno sociale divenne un fenomeno politico di qualunquizzazione dei pozzi istituzionali. Il vaffanculismo, ahinoi, si sedette tra gli scranni dell’ideologia nichilista per farsi sovrastruttura, e attraverso i perni deboli della recente storia è riuscito a distruggere il metodo liberale, talvolta accecando le persone con contenuto pop condivisibili. Il metodo liberale è stato edificato faticosamente nei secoli, e rimarginare le ferite che esso ha subìto richiede tempo e ingegno politico. Un metodo basato su equilibri faticati nei secoli, basato sull’incontro produttivo tra la domanda e l’offerta nei mercati, tra l’altro, richiede lungimiranza nel pensiero economico. E invece, alla faccia di ogni potenziale liberalismo new age, una parte delle fragilità cittadine ha ceduto per alcuni anni a quei meccanismi che tendevano ad assistenzializzare i bilanci pubblici senza generare sbocchi produttivi, o riproduttivi, nell’economia reale.

In Italia il populisticamente corretto ha diffuso una favola improduttiva e costosa che potrebbe essere descritta con la seguente proporzione: la gestione privata delle produzioni sta all’ingiusto come la gestione pubblica delle produzioni sta al giusto (senza considerare le tipologie di interessi coinvolti in ogni singola attività produttiva e allocativa, fra risorse, creatività e costi). Dobbiamo rompere questa proporzione, questo manierismo anacronistico e apriorista che schiaccia la creatività umana, ri-sovietizzando la società. Il politico liberale non ha bacchette magiche o massimaliste, non è un soviet a vocazioni escatologiche, fantasiose e nebulose. Il politico liberale, e demo-libertario, è un politico che raccoglie le cifre delle misure su cui far calzare le scarpe a chi ha voglia di camminare, dando l’opportunità di correre tanto e bene a tutti gli Speedy Gonzales, senza bloccare i grossi piani industriali sulla pista nazionale e internazionale con il pretesto di dover far camminare chi non riesce a correre. Chi non riesce a correre, deve essere messo in grado di camminare bene e in modo dignitoso, e soprattutto in modo libero, autodeterminato, indipendente. È importante favorire un modello di società in cui è bello imparare a camminare, per il bene proprio e per quello collettivo, contemporaneamente. I modelli stanchi di spese pubbliche prive di produttività e investimenti sono modelli-morti che camminano.

Le azioni concrete di un Governo liberale e paziente, nelle complessità, non devono lasciarsi intimorire dalle carsiche dittature subculturali del populisticamente corretto. Non è tempo di piagnucolare come fighetti del buonisticamente corretto: Hamas e tutti i nazi-islamismi – con il benestare di chi a queste forze brute strizza l’occhio – attaccano i nostri sistemi culturali, comportamentali, associativi, divertentistici e produttivi, con lo scopo di impadronirsi di un potere temporale globale in funzione anti-occidentalista e anti-libertaria. La politica ha il compito di farsi effettivamente compatta e dura, mai molliccia, e solo una società di forti vocazioni liberali saprà reggere il peso degli attacchi oscurantisti, senza mai dismettere la propria radicale identità scolpita sulla roccia della storia. Restiamo radicati. Sul sentiero del progresso produttivo, con la nostra spiritualità civica: italiana, aperta, dialettica, amata. Liberi.


di Luigi Trisolino