Peggio dell’invasività dello Stato c’è solo lo strapotere nelle mani di pochi

giovedì 31 agosto 2023


Pochi giorni fa, in tivù, hanno trasmesso un documentario Gianni Agnelli, in arte l’Avvocato. Nonostante fosse sul canale Rai 3 – una volta soprannominato Telekabul – mi ha sorpreso lo stile celebrativo e reverenziale dei vari commentatori intervistati. Non solo personaggi dell’entourage Fiat dell’epoca, ma anche giornalisti progressisti, come Paolo Mieli.

Tutti, apparentemente, nostalgici dello stile imprenditoriale e del savoir-vivre dell’avvocato, che trattava a tu per tu con i potenti della terra e si poteva permettere di esprimere profonda ammirazione per l’avversario comunista, Luciano Lama, che, evidentemente, ricambiava. Amante delle arti, cittadino del mondo. Sembrava il ritratto di un principe rinascimentale.

Io ho un altro ricordo.

La Fiat, in quegli anni, era un impero all’interno della Repubblica o viceversa era l’Italia al suo interno. Quando doveva formarsi un governo, il presidente della Repubblica chiamava, tra i primi, alle consultazioni proprio lui, l’Avvocato. Il potere della Fiat sulla politica era così invasivo che – si diceva – l’Italia fu l’ultimo Paese europeo ad avere la tivù a colori, per non dirottare la spesa per l’acquisto dell’automobile verso i nuovi apparecchi. Proprio per accontentare la dinastia, lo Stato, a più riprese, si fece carico dei bisogni della galassia industriale torinese, con miliardi di aiuti e con regali, come l’Alfa Romeo, venduta, Nummo uno e con pagamento – come si dice in antico gergo popolare – a babbo morto, scippandola al concorrente americano pronto a mettere, subito, sul tavolo denaro sonante. Proprio ispirandosi a questa generosa osmosi finanziario-industriale, si coniò il detto: “Privatizzazione degli utili e socializzazione delle perdite”.

Per lunghi anni, la Fabbrica italiana automobili di Torino mantenne la maggioranza delle quote di mercato delle quattro ruote in Italia, grazie, soprattutto, alla pioggia di aiuti pubblici (decine di miliardi di euro al cambio attuale) e alle misure protezionistiche, larvatamente erette a difesa dell’industria automobilistica italiana. Era il simbolo del capitalismo privato di relazione. Quello dei patti di sindacato e degli incroci azionari. Quello protetto e tutelato da Mediobanca, con i soldi dei risparmiatori delle banche dell’Iri. Quello in cui le azioni non si contavano ma si pesavano, come la spada di Brenno sulla bilancia dei romani indifesi.

Oggi, è tutto cambiato e il mercato automobilistico non è più il motore dell’economia del nostro Paese. Nulla è come prima anche se, il nuovo, ancora molto gli assomiglia.

Se si può trarre qualche riflessione da questo excursus è che – mi attirerò gli strali di molti amici (chiedo venia ma sono un polemista) – chi fa impresa non è, tendenzialmente (sottolineo tendenzialmente e, aggiungo, per natura), votato alla libertà di mercato. Ogni volta che gli è riuscito, l’imprenditore ha sempre attinto, a mani basse, dalle casse pubbliche (quanto sono sempre piaciuti sostegni e incentivi). Basta vedere le lamentazioni del sindacato imprenditoriale quando si è tentato di eliminare i superbonus edilizi. Lo Stato taglieggia i privati e i privati mungono lo Stato. Lasciato libero di agire, l’imprenditore diventa prenditore. O predatore. Se nulla lo impedisse egli espellerebbe concorrenti e nuovi entranti dal mercato, con pratiche di dumping. Oppure fisserebbe accordi collusivi con altri operatori per fissare i prezzi al livello più alto possibile. Lo farebbe, con qualunque mezzo e anche usando il peso delle sue lobby sul potere politico. Lo abbiamo visto in passato con le pratiche predatorie della Standard Oil, che portarono allo smantellamento del monopolio dei Rockefeller. Lo stiamo vedendo oggi, con i grandi colossi della new economy, sempre più integrati in senso orizzontale e verticale e che hanno posizione dominante o quasi, in tantissimi segmenti di mercato. Quelli che, ormai, più potenti di tanti governi, nei forum internazionali, pretendono di decidere il nostro futuro, economico e sociale, senza neanche passare per le assise elettive. Che vagheggiano l’instaurazione di tecnocrazie governate da algoritmi. Come può, chi si oppone alla pervasività dello Stato nelle nostre vite, accettare che questo strabordante potere venga concentrato in un oligopolio privato?

Per troppi anni la politica, soprattutto nel nostro Paese, è stata forte con i deboli (i cittadini vessati) e debole con i forti. Questi ultimi, i poteri forti, influenti e pervasivi, che i governi credono di poter domare con, saltuarie e cosmetiche, gabelle punitive o mettendosi in concorrenza con essi. Perché ancora non hanno capito che lo Stato, sul mercato, non deve essere attore ma arbitro. Esso deve garantire quel “level playing field”, ossia quella parità di condizioni, che protegga la concorrenza dalla concentrazione nelle mani di pochi. Ma, soprattutto, che impedisca che queste grandi concentrazioni economiche diventino una minaccia alle nostre libertà civili e politiche. Serve che lo capiscano i governanti ma anche i cittadini che, sempre più svogliatamente, vanno alle urne per eleggerli.


di Raffaello Savarese