Dittatura e democrazia liberale: una riflessione oltre le parole

giovedì 27 luglio 2023


La questione del giusto equilibrio tra il momento della libertà e quello dell’ordine, è remota come lo è la storia della civiltà organizzata, dove ognuno rinunzia a parte dei suoi diritti acconsentendo ad associarsi con altri uomini, per ottenere in cambio la salvaguardia di beni primari come la vita, la proprietà, la libertà compatibile con quelle altrui, ovvero – per dirla col presidente Sergio Mattarella – la libertà da sviluppare sinergicamente con quella altrui. Nel periodo illuministico, seppure con diverse sfumature, Hugo Grotius, Tommaso Campanella, Thomas Hobbes e Immanuel Kant consentirono sul principio che la libertà, al pari di altri diritti naturali – come la dignità della persona – doveva delimitare il potere sovrano dello Stato nei riguardi dei cittadini e costituire il frutto di un’evidenza razionale comune a tutti i popoli. Negazione della libertà era ed è la tirannide, al cui riguardo sussistono due differenti fattispecie “genetiche”:

1) presa di potere con un colpo di Stato eversivo rispetto all’ordine in precedenza esistente: dictator quia sine titulo (esempio: Lenin);

2) assunzione di potere in conformità del diritto vigente e successiva gestione autoritaria del potere stesso: dictator quoad exercitium (esempio: Benito Mussolini).

Sia nel caso di golpe, che di violazione del patto sociale idealmente stipulato tra governanti e governati, scatta il “diritto di resistenza”, che è quello del singolo o di gruppi organizzati o di organi dello Stato, o di tutto il popolo, di opporsi con ogni mezzo, anche con la forza, all’esercizio arbitrario e/o violento, non conforme al diritto, del potere statale. La legalità di uno Stato va pertanto ancorata al consenso liberamente espresso e del pari liberamente revocabile da parte dei suoi cittadini. Il diritto di resistenza mirava alla restaurazione dell’ordine violato ed alla cessazione del potere arbitrariamente esercitato; ma non alla creazione di un ordine nuovo, come avviene invece nelle rivoluzioni. Presupposto di ogni autentica libertà è la cultura: non è dunque un caso se tutti i regimi totalitari del passato e del presente, hanno osteggiato l’istruzione, poiché la circolazione delle idee, attualmente molto più rapida grazie alle moderne tecnologie ed alla facilità dei viaggi, può risultare eversiva dell’ordine arbitrariamente imposto. Senza cultura non vi può essere democrazia, che è prima di ogni altra cosa discernimento e comprensione di ciò che accade intorno a sé. Non a caso, Piero Calamandrei (1889-1956) scriveva che la scuola andava considerata “organo centrale della democrazia e complemento necessario del suffragio universale”.

La libertà è il principio ispiratore ed il fine della dottrina politica del liberalismo, che don Benedetto ritenne tuttavia autonomo dall’economia, in quanto ideale della vita morale; ma contro siffatta impostazione si levò Luigi Einaudi, il quale obiettò che la natura intrinsecamente illiberale di sistemi schiavizzanti come il comunismo o il capitalismo monopolistico, non avrebbe potuto convivere con l’etica liberale. Alla luce di esperienze concrete come quella della Cina post-maoista, la storia sembrerebbe aver dato ragione al Benedetto Croce, in quanto si può osservare la coesistenza di un regime al momento ancora ad impronta marcatamente dirigistica, con un’economia di mercato e quindi la reciproca indipendenza fra sistema economico e sistema politico, ispirati a valori molto diversi: abbiamo uno Stato liberista, ma non certo liberale!

Una più attenta ponderazione ci impone di considerare che sia Croce che Einaudi, seppur giungendo a conclusioni diametralmente opposte, erano partiti dal comune presupposto della compatibilità o meno fra il liberalismo, quale ideale etico, e modelli economici pianificati dall’alto. Nel caso della Cina popolare, si è realizzata una comparazione all’inverso: un sistema di libero mercato si è sviluppato nell’ambito di uno Stato ancora molto prudente nel fare proprie quelle forme di libertà dello spirito, che sono essenziali per l’idea liberale. Nondimeno riteniamo che in quell’immenso Paese, la libertà economica in un futuro assai vicino, farà da battistrada a quella civile, politica, religiosa, della qual ultima i progredenti accordi con la Santa Sede lasciano intravedere incoraggianti segnali.

Un grande raggio di luce appare altresì dall’interesse con cui la Cina dell’imprenditoria e dell’economia, corteggiata e temuta dal mondo intero per la sua rapida espansione economica, studiar in ben 130 Università il Diritto romano giustinianeo, grazie al quale ha scoperto regole utili alla disciplina dei contratti privati e delle responsabilità che ne derivano. Nuove criticità incombono. Per converso, sulle democrazie rappresentative del Vecchio Continente, tra le quali – per l’Italia – va sottolineata la legge modificativa dell’articolo 81 della Costituzione, che ha sancito il pareggio di bilancio con nuova e più stringente tassatività, in quanto ogni nuova norma che importi nuovi o maggiori oneri, deve provvedere ai mezzi per farvi fronte.

Ciò pone oggi nuovi problemi di ordine costituzionale, etico, politico ed economico, in relazione a quella connotazione socialmente orientata, che ha costituito il “quid novi” identitario dello Stato repubblicano, rispetto al precedente regime statutario.

A differenza di altri modelli europei, la Costituzione italiana è basata infatti su di una serie di principi ispiratori, come i diritti fondamentali della persona umana – al lavoro, alla salute, all’istruzione – che essa non ha creato, ma dei quali si è resa funzionalmente “ricognitiva” in quanto ad essa intrinsecamente preesistenti, e quindi immodificabili da qualsivoglia riforma della Costituzione medesima. Quest’ultima, va ribadito, nella loro tutela trova la sua ultima ragione di esistere ed il limite invalicabile nello stesso tempo per ogni eventuale modifica. Ne consegue che neanche le regole comunitarie, peraltro assai sensibili alle istanze dei mercati finanziari, possono stravolgere le basi del nostro ordinamento. Costantino Mortati ed altri grandi costituzionalisti, definirono “rottura dell’ordinamento” una siffatta ipotesi, che oggi si configura come una specie di colpo di Stato strisciante realizzato in nome dell’Europa, che svuota di contenuto il concetto stesso di democrazia rappresentativa, con i correlati sistemi elettorali, nel momento in cui gli interessi collettivi sono demandati ad un’oligarchia bancaria autoreferenziale, spinta dalla mera molla del profitto speculativo.

Il pareggio di bilancio determinato con ineludibile tassatività, diverrà un nuovo parametro di incostituzionalità, rilevabile nell’immediato già dal capo dello Stato, nel caso di sforamento. Per contro, il contenersi sempre e comunque nei confini indicati, sembrerebbe inconciliabile con la tutela del diritto primario alla salute nel caso che, per conseguire tal fine, dovesse superarsi il limite in parola. Un altro esempio può essere quello delle restrizioni di spesa per la cultura, che non può essere tagliata con la tesi dei vincoli imposti dalla crisi economica. Alla stregua di un ponderato esame della normativa vigente e degli orientamenti espressi dalla giurisprudenza italiana ed europea, appare certo il rifiuto di una subordinazione dei diritti fondamentali al mero criterio economico, che appare come l’unica regola di riferimento dei tempi presenti. Gli elettori sono stati privati di gran parte del loro potere sovrano, dai “mercati finanziari”, cioè da cause esogene.

Alla luce di quanto esposto, va assai meditata la tesi che ogni qualvolta ci sia il consenso delle genti, si possa parlare senz’altro di democrazia, il che è in generale rispondente al vero. Per converso, innanzi a dei governi d’emergenza a guida militare, si ritiene “a priori” che ci si trovi innanzi a delle dittature, il che non è sempre esatto, perlomeno nel significato svalutativo che il termine ha assunto nell’età contemporanea. Giova sempre ricordare che Alexis de Tocqueville, nella sua celeberrima opera ottocentesca La democrazia in America, osservò che ovunque negli Stati costituzionali europei il massimo della sovranità era nelle mani del Legislativo, cui erano subordinati l’Esecutivo e il Giudiziario, con il rischio che ne derivava di un dispotismo della maggioranza. Rischio oggi accresciuto in Italia con l’esautoramento del Legislativo da parte dell’Esecutivo, come a suo tempo ben evidenziato da Gustavo Zagrebelsky, il quale ha sottolineato che il Parlamento è stato umiliato nella sua prima funzione, che è quella rappresentativa.

A ciò va aggiunto il fatto che ove siano previsti dei “premi” da conferire al partito o alla coalizione di partiti che abbia raggiunto il maggior numero di voti, viene del tutto ad essere disattesa la tutela delle minoranze, in ossequio ad una maggiore governabilità. Contro il rischio involutivo in parola, esistono bensì dei meccanismi di garanzia, come i poteri di controllo assegnati al capo dello Stato e alla Corte costituzionale; nonché la procedura “rafforzata” che prevede una maggioranza qualificata per cambiare una Costituzione come la nostra; ed infine i paletti insormontabili dei diritti fondamentali ivi riconosciuti, ad essa preesistenti ed ineliminabili da qualsivoglia sua eventuale riforma. Ma la prevista maggioranza qualificata per le modifiche della Costituzione, viene di fatto annacquata dal richiamato premio di maggioranza, che viola il principio della fedele rappresentanza numerica delle minoranze, in merito alle riforme di maggior rilievo che investono il Paese.

Una maggioranza, per quanto estesa, non deve mai scalfire i diritti delle minoranze e non deve contrastarne la possibilità che, in tempi più o meno vicini, attraverso la propaganda propria o gli errori altrui, possa a sua volta divenire maggioranza, per quella che gli anglosassoni amano definire l’” oscillazione del pendolo” (o altalena dei partiti). In parole povere: non è la forza dei numeri a certificare la natura democratica di un sistema, come – tanto per fare il più drammatico degli esempi – avvenne con la semi – plebiscitaria ascesa al potere di Adolf Hitler in Germania. Per converso, e siamo arrivati alla considerazione finale, non è corretto sviluppare aprioristicamente l’equazione di Governo militare = dittatura. Ciò se l’ascesa temporanea di un governo militare, scongiura l’annientamento delle minoranze da parte di maggioranze fanaticamente ideologizzate e refrattarie ad ogni dissenso.

Un esempio concreto ci aiuta a rendere meglio il concetto.  In Turchia nel 1980 l’esercito prese temporaneamente il potere, a fronte di lotte cruente tra opposti schieramenti politici, per riportare il Paese alla normalità democratica. A tale presa di potere espresse il suo plauso un uomo come il compianto Marco Pannella, notoriamente di cultura, di impegno morale e civile pacifista e tutt’altro che militarista. Tocqueville, nella sua concezione della democrazia come forma di governo che garantisce anche i diritti delle minoranze, come inquadrerebbe il caso della Turchia e, per converso, riterrebbe democrazia un sistema “drogato” con i seggi – premio che falsano la reale consistenza del consenso popolare, o con un pareggio di bilancio realizzato distruggendo lo Stato sociale?

Ai lettori l’ardua risposta.


di Tito Lucrezio Rizzo