Silvio Berlusconi, l’imprenditore e il politico che passò ogni guado

martedì 13 giugno 2023


Con la dipartita di Silvio Berlusconi finisce un pezzo dell’Italia, quello che è passato dal Dopoguerra al boom, dalla crisi economica alla ripresa del craxismo yuppista all’italiana, dalla sopravvivenza post-sovietica del partito con la nuova targa prodiano-craxiana-kennediana-massonica-capitalistica-anticapitalistica. Quel partito rimase intatto anche grazie alla mostrificazione del capro espiatorio Bettino Craxi, e poi con la damnatio in vita del Cav, grazie a una magistratura troppo politica. Berlusconi attraversò anche gli anni dei processi, quelli della globalizzazione fino all’attuale sfida del sempiterno totalitarismo russo-cinese.

Un percorso che ha toccato punte di una disinvoltura quasi sfacciata, come quando nella residenza romana di Palazzo Grazioli, posta al piano sopra quello della fondazione di Massimo D’Alema, fiorivano i via-vai di auto dai sedili leopardati e ricolmi di terga femminili. La guerra (in)civile tra berlusconismo e l’Inquisizione della magistratura e della cavalleria cosacco-gesuitica ha anticipato di decenni il trumpismo americano. Non dimentichiamo mai che secondo Jean Baudrillard l’Italia non ha soltanto scoperto l’America, ma l’ha anche fondata su basi anarco-capitaliste e con la cultura dello spettacolo, dello show-business e del culto delle immagini (intese come realtà virtuale, a partire dalla prospettiva rinascimentale). Baudrillard aggiungeva che l’Italia è anche il laboratorio politico da cui attingono gli Stati Uniti.

Ma Silvio Berlusconi non è stato Donald Trump, che è la sua brutta copia. Il Cav dava fastidio al partito dello show-business degli attori e dei politici perché era anche un socialista. Se volete mandare in bestia un seminarista della sinistra, ricordategli che Benito Mussolini era un socialista di prima fila, poi diventato filo-capitalista (ma in versione monopolista-statalista), e infine morto social-comunista come il gerarca Nicola Bombacci. Lo storico Roberto Gervaso nel 1997 fotografava questa messa a nudo con un libro dal titolo inequivocabile: “I sinistri: da Mussolini a Scalfaro”. Il saggio di Gervaso era pieno di quelle contraddizioni multiple tipiche di un Paese in cui troppe persone sono sempre pronte a correre in soccorso del vincitore di turno: Enrico Mattei, per esempio, adorato dalla intellighenzia nostralina per il suo “indipendentismo energetico” dagli Stati Uniti, era un prototipo della Germania post-1989, quella che si buttò nelle braccia di Gazprom e derivati simili, con risultati geopolitici che scopriamo devastanti solo oggi, in Ucraina. Mattei era un democristiano della prima ora che prese sbandate a sinistra, dichiarando sul New York Times “sono contro la Nato e sono per il neutralismo”, come un qualsiasi anti-zelenskyano d’oggi. Era anche un cinico micidiale, che dichiarava: “In un Paese di corrotti, o si è corruttori o si è fessi”. Parlo di Mattei, non di Berlusconi.

Anche il Cav era ubiquo, però non era cinico. In meno di vent’anni è diventato ricchissimo, un anomalo imprenditore americano-lombardo, a metà tra un palazzinaro romano e un tycoon di Hollywood. A inizio degli anni Novanta ha deciso di appendere le telecamere al chiodo, come Ronald Reagan, e – proprio come Ronnie “il barbaro” (per i benpensanti italiani) – si è dato alla politica con successo. Nel frattempo, aveva infranto la regola fondamentale che governa il feudo Italia: non esisteva più soltanto il “posto di lavoro fisso” e poco produttivo, mentre risultava possibile creare ricchezza e posti di lavoro produttivi, anche non essendo (particolarmente) ricchi. Soprattutto negli anni in cui la grande industria metalmeccanica si trasferiva in Cina o nell’est europeo, mentre in Italia solo il Lombardo-Veneto e l’Emilia si convertivano alle nuove piccole e medie industrie, che hanno cominciato a utilizzare produzioni hi-tech e a macinare grano. Tanto grano. Mentre il Pds-Ds-Ulivo-Pd, cambiando sigla e nome, continuava a non capirci più un caxxo di economia, mercato e geopolitica.

Da giovane Silvio Berlusconi era un solitario: d’estate se ne veniva giù a Portofino coi genitori, e tutte le mattine comprava un pezzo di focaccia e si arrampicava sul monte fino a San Fruttuoso. Una fatica che a luglio oggi è ancora possibile solo per i turisti tedeschi. Quando vedono l’hymalayano inizio del sentiero, americani e italiani chiedono all’Ufficio di Informazioni di Portofino: “E per lo shopping invece?”. A quel punto, gli addetti li indirizzano alla fermata del bus per Santa Margherita Ligure e Rapallo. Quel bus – dopo un paio di curve – passa proprio sotto la villa “di Berlusconi”, che negli scorsi decenni è stata presa in affitto dal figlio Pier Silvio e dalla sua famiglia, che poi ha comprato la vicina villa San Sebastiano per venti milioni.

Ho rivisto Berlusconi tempo dopo, quando governava Romano Prodi. Si trattava di un appuntamento politico romano, a due passi da Palazzo Chigi. Alla fine, Berlusconi salì sull’automobile di servizio, che ripartì inseguita da un coro di Vaffa, provenienti da un gruppo di giovani. Mi chiesi: perché sentono il bisogno di mandare a quel Paese proprio lui? Non ci sono altre persone da maledire, anche più potenti?

Certo che poi arrivarono gli anni del potere e degli errori fatali. Con un consenso molto alto, all’alba del nuovo millennio, il Cav fallì la rivoluzione liberale, anche per colpa della guerra incivile lanciatagli contro dall’ancora potente sinistra. Oggi, certo, è più facile per Giorgia Meloni, dopo anni di crisi ed epidemie, e dopo qualche timida apertura del renzismo prima e del draghismo poi, che comunque hanno rappresentato una breccia di Porta Pia per Meloni, che davanti aveva ormai solo un Pd cui resta solo il target dei diritti civili.

Certo il Cav fece troppi cucù alla potente Angela Merkel e al (lui sì) condannato Nicolas Sarkozy. Si fece illudere come una qualsiasi Ermione dalle illusioni e dalle cortigiane di Vladimir Putin. Lasciò che la Libia andasse a scatafascio, senza riuscire ad avere un ruolo e una proposta alternativa alla guerra lanciata dalla Francia. Il Cav non seppe nemmeno replicare al cappio che alcune incompetenze dei suoi ministri e le tante impertinenze dei media e dei trafficanti dei mercati internazionali gli legarono al collo.

Gli ultimi anni sono stati un lento recupero politico in direzione moderata e centrista, preveggenze di Giorgia Meloni che è una sua figlioccia moderata ed energica come un vulcano, una democristiana capace di adattarsi perfettamente al veloce cambiamento delle situazioni internazionali, che purtroppo governa in un Paese che è più lento di una lumaca morta. E milita in un partito che resta nel luogo comune e in parte sotto l’etichetta di “fascista”. E tu vai a dire a quelli che danno del fascista a tutti quelli che non sono simpatici che Ennio Flaiano e Silvio Berlusconi avevano ragione, quando allargavano il concetto di “fascismo” anche a sinistra. Quel passaggio politico non è stato un merito da poco.


di Paolo Della Sala