Riformare la Costituzione, innovare l’Italia

venerdì 9 giugno 2023


Uno dei vizi della politica italiana è quello di promettere di rivoluzionare tutto, di riformare seriamente poco e in qualche caso di sfasciare molto, soprattutto in ambito costituzionale. Ed è quello che regolarmente è avvenuto con la Costituzione della Repubblica italiana più volte, a differenza di quanto si pensi, sottoposta a complicate e in alcuni casi rovinose revisioni. Una di queste fu l’istituzione delle Regioni a statuto ordinario avvenuta nel 1970 operata dal cosiddetto centrosinistra organico (l’alleanza di governo tra Democrazia cristiana, Partito socialista, Partito socialdemocratico, Partito repubblicano) con il sostegno del Partito comunista italiano, e la ferrea opposizione di Giorgio Almirante, segretario del Movimento sociale italiano; di Alfredo Covelli, segretario del Partito democratico italiano di unità monarchica e di Giovanni Malagodi, segretario del Partito liberale italiano. Una sciagura per i conti pubblici che, da quel momento, non sono stati più in equilibrio. La spesa statale ha continuato a crescere a dismisura a causa dei costi dei servizi che le Regioni dovettero sobbarcarsi (vedi la sanità) e delle nuove macro burocrazie. Così ancora oggi risultano gli enti più esosi del nostro ordinamento.

Questa modifica della Costituzione fu una delle tante manomissioni che i gruppi parlamentari hanno operato nel tempo. Infatti le Leggi di riforma costituzionale approvate dal 1947 ad oggi sono state 47, di cui 16 per l’istituzione o la modifica di Statuti regionali speciali, a cui vanno aggiunte le 3 nel 1947 e le 5 nel 1948 varate dalla stessa Assemblea Costituente. Più recentemente sono state confermate mediante i referendum due leggi di revisione costituzionale: nel 2001, la riforma del Titolo V che ha generato subito una serie di contenziosi tra Stato e Regioni; nel 2020, la riduzione del numero dei parlamentari, che ha ridotto lo spazio della rappresentanza politica, già notevolmente delegittimata da un sistema elettorale che premia non il consenso dei candidati ma le “nomine” operate dai leader di partito. Queste due alterazioni della Carta costituzionale furono volute da maggioranze di centro sinistra. La prima con in carica il Governo Amato II e la seconda con il Conte II. E così nel 2001 fu abolito il controllo di legittimità, da parte dello Stato, sugli atti amministrativi della Regione, sostituendo il centralismo statale con quello regionale con tutto quello che ne è derivato in termini di contabilità ed equilibrio della spesa pubblica, già negli anni messa a dura prova.

Vanno citati anche due progetti di modifica approvati dal Parlamento a maggioranza assoluta, ma respinti mediante i referendum costituzionali, nel 2006 e nel 2016. Il primo voluto dal centrodestra guidato da Silvio Berlusconi che introduceva nell’ordinamento italiano il “premierato”, la riduzione del numero di deputati (da 630 a 518) e senatori (da 315 a 252), la fine del bicameralismo perfetto, il presidente della Repubblica sarebbe divenuto garante dell’unità “federale” della Repubblica e tutta una serie di interventi in materia di devoluzione di poteri alle Regioni per venire incontro alle richieste pressanti della Lega di Umberto Bossi. La tentata riforma del 2016 fu pensata dall’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, la soppressione del Cnel e la revisione del Titolo V della parte II della Costituzione.

Come è facile intuire la Costituzione “più bella del mondo” è stata rimaneggiata più volte e spesso proprio da quella sinistra che così retoricamente sui media la definisce. Il problema comunque non sta nel fatto che la si possa modificare, ma nel dato che essa venga alterata con relativa facilità e in qualche caso faciloneria secondo le promesse strappa consenso che i partiti fanno in campagna elettorale. Adesso è il turno dell’attuale maggioranza di centrodestra, che questa volta vuole introdurre una forma, ancora per la verità non molto chiara, di presidenzialismo insieme alla cosiddetta “autonomia differenziata” che tanto piace alla Lega.

Bene inteso che è sicuramente legittimo che il centrodestra avanzi una proposta di modifica della Costituzione nel pieno rispetto dell’ampio consenso ricevuto. Ma il tema è un altro: dove si vuole portare la democrazia italiana? verso un sistema che premi di più la stabilità o la rappresentatività? con uno Stato meno invasivo, sburocratizzato, nel quale siano maggiori gli spazi di libertà individuale, decentralizzato e in cui il suo potere sia ben delimitato e dove anche quando governa un ceto politico poco accorto, esso possa fare meno danni possibile? Il cuore della democrazia liberale sta nella limitazione del potere dello Stato e non nella sua dilatazione. Rischio che si corre quando cominciano a venire meno le garanzie costituzionali o non siano ben definite competenze e attribuzioni.

Ci sono due poi modi per intendere l’intervento nelle questioni istituzionali: il primo quello che vuole preservare le libertà che una Costituzione riconosce all’individuo, e l’altro è quello che conferisce la facoltà di agire al Governo anche a scapito di esse (spesso con la giustificazione di una particolare emergenza). Passare a una riforma in senso “autonomista”, una volta avremmo scritto federale ma oggi i leghisti di una volta non ci sono più, e contestualmente presidenziale, è un grande esercizio di pensiero. Infatti il potenziamento delle autonomie locali comporta una maggiore possibilità di partecipazione da parte dei cittadini alla vita politica e l’abbandono del tipico paternalismo statalista del sistema centralizzato grazie proprio alla responsabilizzazione degli individui. Al contempo la concorrenza di poteri alternativi, concorrenti e contrapposti rispetto a quelli dello Stato tutela di più le libertà individuali, anche se una maggiore devoluzione storicamente ha prodotto un’allegra gestione del pubblico erario. Nel 1996 Andrea Villani sosteneva che “dal 1970 è accaduto che i comuni italiani si sono trovati a disporre di una quantità di risorse globali e pro capite quali non avevano potuto avere prima ed è anche accaduto che i cittadini italiani si sono trovati a pagare imposte quale mai avevano pagato nel passato. I comuni hanno potuto conseguentemente avviare politiche di spesa in campi mai prima toccati”. Quindi da un lato un aumento di spesa e dall’altro una maggiore tassazione a carico delle persone per sostenerla.

Però avere una governance più vicina agli elettori, come i comuni o le provincie, di dimensioni ridotte, aumenta il controllo da parte dei cittadini sugli amministratori, i quali sono conseguentemente costretti a una gestione più oculata delle risorse, soprattutto in tempi di vacche magre o di crisi economiche.

Come afferma Gordon Tullock in La scelta federale. Argomenti e proposte per una nuova organizzazione dello Stato è preferibile “un Governo che sia molto sotto il controllo degli individui, più piccola è l’unità governativa, maggiore influenza può avere ogni singolo elettore e la ricerca di rendite è più facile che si verifichi nei governi grandi piuttosto che in quelli piccoli”. Detto questo risulta evidente che la concorrenza tra istituzioni, come quella tra comuni di grandi dimensioni e province, realizzava una maggiore efficienza e sollecitudine nella fornitura di servizi, visto che i rispettivi consiglieri e assessori si contendevano elettori nel “mercato” politico, cosa che con l’abolizione delle seconde è venuta meno.

Se veramente il centrodestra ha voglia di mettere mano per l’ennesima volta alla Carta costituzionale senza pregiudicare l’unità nazionale dovrebbe farlo partendo dalla reintroduzione delle province e dalla ridefinizione dei poteri da attribuire agli enti locali sottraendoli alla bulimia delle Regioni per non sostituire al centralismo statale quello regionale. Magari anche introducendo la possibilità per i contribuenti di scegliere a quale istituzione di prossimità (per esempio Comune o Provincia) pagare una tassa per un determinato servizio di cui liberamente si vuole avvalere. Questo vorrebbe dire introdurre nel settore pubblico il principio della concorrenza di mercato anche tra istituzioni. Le problematiche e le criticità che si aprono sono numerose e dagli esiti anche imprevedibili, perché un sistema perfetto non esiste, ma è comunque preferibile avere unità di governance controllabili e contenute che grandi e deresponsabilizzate. Innovare è indispensabile per migliorare qualsiasi ordinamento. E poi piuttosto che rimanere immobili, meglio credere nella tradizione come “un’innovazione ben riuscita” secondo il celebre aforisma di Oscar Wilde, tenendo presente che saremo costretti comunque a fare ulteriori riforme per rimediare agli errori che inevitabilmente, anche con il Governo Meloni, si commetteranno.


di Antonino Sala