venerdì 24 marzo 2023
Un dilemma, ogni tanto, si apre nel dibattito culturale: quali sarebbero le differenze tra “comunitari” e “comunisti”? A sentire coloro i quali si iscrivono alla prima categoria, esse sarebbero notevoli, a cominciare dal significato che si assegna alla persona. Infatti, ne danno un’immagine concreta, reale, fatta di aspirazioni, interessi, diritti e valori. Volendo semplificare: un uomo in carne e ossa.
Detto questo, però, cominciano a inerpicarsi per darsi ogni tipo di definizione e spiegazione nel tentativo di differenziarsi dai secondi. Iniziano affermando che il “comunitario” è colui che dà rilevanza ai sentimenti interpersonali, appunto comuni, ai riti, alle usanze e ai costumi, che si compiono insieme agli altri, così come codificati dalla tradizione e che in qualche modo fanno da base alla sua stessa identità. Anche la lingua può essere integrata in questo affresco della comunità, come anche la moneta e più in generale l’economia soprattutto quella pianificata (che piace molto sia ai comunitari che ai comunisti perché li rassicura). Sostanzialmente, il comunitario ritiene di esistere solo in relazione agli altri, e crede in una individualità limitata. Si sente eternamente figlio: della Patria, della mamma, dello Stato, del partito. Ma mai padre di alcunché. Sarebbe un esercizio di eccessiva indipendenza pensarsi in grado di essere genitore: meglio essere più semplicemente progenie, in attesa che qualcuno lo porti in salvo e gli dia di che sfamarsi. E spesso questo atteggiamento trasdotto in politica porta alla speranza che questo qualcuno sia lo Stato assistenzialista e dirigista, che gli pre-determini il proprio ruolo nella società, dalla culla alla tomba.
D’altronde, egli pensa di essere appartenente a un luogo e mai al tempo in cui vive e in cui esercita il proprio libero arbitrio. Un tassello di una comunità di destino, a cui deve tutto e a cui dare tutto, anche la vita sua e dei suoi figli. Il tempo, per lui, è solo la linea che lo congiunge al passato, che poi ne determina il presente e gli affida un futuro eventuale. Non lo concepisce come una condizione esistenziale, una variabile, una possibilità. Dopotutto, egli teme disperatamente i cambiamenti in generale, e quelli di cui ha più terrore sono sociali, politici ed economici. Ai suoi occhi il mutare della realtà, anche se non sempre in senso negativo, è la peggiore delle condizioni in cui può trovarsi. E quindi si assegna il doloroso compito di cercare di arrestare il mutevole corso della storia con ogni mezzo, sognando un mondo pietrificato.
È un uomo pieno di timori che si associa ad altri uomini solo per proteggersi, non solo dagli esseri come lui, ma anche dagli eventi su cui, come quelli naturali, ha poco o nessun potere. Lo fa anche attraverso la religione, pensando di dominare o modificare la volontà del Padre Eterno attraverso ritualità anche antiche che gli permetterebbero di sopravvivere all’imponderabile. In qualche caso, finisce persino a opprimere la libertà degli altri, in nome della salvezza sperata. Cosa che, per esempio, ancora oggi avviene nelle frange più oltranziste dell’Islam e in passato succedeva sotto la “Santa” Inquisizione. Un essere che, nonostante tutto, non è riuscito a trovare una soluzione escatologica definitiva alla morte ed alle peggiori malattie che ne opprimono l’esistenza terrena.
Dall’altro lato, compare la figura del “comunista”, che è altrettanto spaventato del futuro, che ovviamente immagina di sfruttamento come il presente, e che pertanto ha bisogno degli altri “compagni” di sventura per liberarsi dal giogo a cui è stato condannato dalla natura. Anche lui è figlio di una Patria, la classe sociale a cui appartiene. A essa è votato e per essa è capace di fare qualsiasi cosa, anche mandare al massacro milioni di altri esseri umani. È animato dalle stesse convinzioni gnostiche del fratello “comunitario”, per cui la sua salvezza dipende da quella del gruppo di appartenenza, che “deve” governare anche in maniera dittatoriale in nome di una superiore missione: la liberazione dalla schiavitù del proletariato e del lavoratore.
Entrambi, comunitari e comunisti, immaginano la libertà come libertà “da” e non “per” o “di”: il primo come emancipazione dall’incertezza della vita e dai cambiamenti, l’altro come affrancamento dai bisogni naturali e dalla difficoltà di reperire risorse materiali. Ambedue vedono nello Stato l’entità che non solo li può proteggere dal futuro indeterminato, ma che ha anche il compito “sacro” di curarsi del loro sostentamento. E siccome pensano che questo possa avvenire attraverso la stabilità dello stesso, credono che il modo migliore per garantirla sia l’educazione, la formazione, o meglio l’indottrinamento delle nuove generazioni, attraverso un sistema d’istruzione il cui fine è preparare l’individuo a resistere al tempo che scorre inesorabile, formando soldati e lavoratori pronti all’estremo sacrificio. Ogni altra iniziativa, se esce fuori da questo schema logico, va soppressa o tutt’al più compressa.
All’unisono relegano la religione a fatto politico, finalizzato alla saldezza dello Stato: il primo, accettandone pudicamente i dettami, perché comunque anche lei aiuta a mantenere la stabilità dell’intero sistema; il secondo, sfacciatamente, perché la considera l’oppio dei popoli da cui liberarsi in prima istanza, e in secondo luogi da asservire al potere governativo come instrumentum regni, così come è avvenuto nell’Urss di Stalin e oggi nella Russia di Vladimir Putin. Comunitari e comunisti sperano in una società chiusa, tribale e intrisa di una cultura magica, in cui il capo politico è un aruspice, uno sciamano, in grado di interpretare i segni divini per la felicità del popolo plaudente. Inoltre, non sopportano la critica, costruttiva o distruttiva che sia, perché è segno di libero pensiero e quindi di indipendenza dal gruppo a cui essi appartengono.
Ovviamente, le coincidenze non sono totali e in alcuni casi sono motivo di conflitto, come ad esempio lo è il tema della famiglia. Infatti, i comunitari la pensano naturale e con qualche accezione anche tradizionale, i comunisti la vogliono pure “arcobaleno”. Ma tutti e due pretendono di darle l’assetto che più aggrada al loro modo di pensare, e alla finalità a cui credono debba essere destinata: mettere al mondo figli per l’esercito o per le fabbriche di domani.
Tutto questo solo per dire che, nonostante gli sforzi intellettuali da una parte e dall’altra, i due termini sono – evidentemente – due modi di vedere la vita e il suo svolgersi non solo simili, ma ahimè intercambiabili. Sono sinonimi della stessa identica idea totalitaria che da Platone a oggi, passando per Rousseau, Hegel e Marx è arrivata fino a noi: subordinare l’individuo al gruppo o allo Stato, deresponsabilizzarlo, renderlo dipendente dagli altri, negandogli ogni libertà o concedendogliene poca. Dalla proprietà privata ai figli, da quella religiosa a quella politica e di associazione. E infatti spesso dicono le stesse cose solo con fraseggio diverso. Anzi, si interscambiano i termini e l’uno acquisisce il linguaggio dell’altro, anche inconsapevolmente. Ambedue hanno dato la stessa medesima risposta al problema aperto da Eraclito, il Pánta rheî sul continuo mutamento della realtà, che nella loro immaginazione si rileva come un decadimento: fermare, con la morale intellettualistica gli uni e con la dialettica sofistica gli altri, il perenne fluire del cosmo. Un’impresa praticamente impossibile e utopistica.
Solo per chiarire meglio, Platone scriveva nella Repubblica: “La cosa più importante è che mai nessuno sia senza un capo, né uomo né donna, né l’anima di alcuno per abitudine abbia costume, né quando fa sul serio né quando per gioco, di agire da sé e isolatamente, ma totalmente in guerra e totalmente in pace si viva sempre gli occhi al comandante e lo si segua e ci si faccia guidare anche nelle minime cose da lui… In una parola si insegni alla propria anima mediante abitudini a non conoscere, a non sapere assolutamente l’agire in qualche cosa separatamente dagli altri, ma la vita di tutti sia sempre insieme, quanto più è possibile in gruppo e comune con tutti… bisogna esercitarsi in pace subito fin da bambini, a comandare agli altri ed essere da altri comandati”.
Cari “comunitari” e “comunisti”: siete i figli gemelli di Platone totalitario e come tali vi comportate. Fatevene una ragione, tanto vi ha già smascherati Karl Popper con La società aperta e i suoi nemici. Evitate di menar il cane per l’aia, annoiandoci con le vostre elucubrazioni sofistiche sulle differenze che non ci sono, anche perché si colgono più agevolmente le somiglianze. Sappiamo da secoli chi siete e cosa volete. Ma noi, che amiamo l’indipendenza di pensiero e azione, l’autosovranità e la libertà, preferiamo essere altro da voi, volendo altro per noi. Abbiamo una società libera e aperta, ordinata ma non ordinante, perché gli uomini sono individui, singoli e persone oltre la nazione, lo Stato, le corporazioni e la comunità. “Padri” di tradizione e innovazione.
di Antonino Sala