Dubbio e confronto anche a destra, ma quando?

mercoledì 1 marzo 2023


La recente conclusione delle primarie del Partito democratico, con l’elezione a segretario di Elly Schlein, dà la possibilità di fare alcune considerazioni sul Pd e sul centrodestra. Intanto è sicuramente un dato importante e significativo il numero di partecipanti alle primarie, oltre un milione, che testimonia che la sinistra in Italia è viva, vegeta e ben organizzata e vuole partecipare attivamente al dibattito. La battaglia poi è stata sul posizionamento politico e le pulsioni più “indietriste” e di estrema sinistra hanno prevalso sugli scenari più aperti verso il centro. Il Pd ha subito la sua ennesima metamorfosi, abbandonando le tesi per cui è nato, l’unione delle istanze socialiste incarnate dall’ex Partito comunista italiano e quelle democristiane degli esponenti della Margherita, con un’involuzione rispetto a quello che avevano immaginato i fondatori nel 2007, e dopo 16 anni di lotte, vittorie traballanti, sonore sconfitte e tanti governi di grande coalizione, è tornato a essere il remake dell’antico Pci, con una differenza: i comunisti di ieri parlavano di condizione del lavoro, sfruttamento degli operai, scuola per tutti e stato sociale e, passatemi il termine che uso con il massimo rispetto, puzzavano di sudore, gasolio e olio idraulico; quelli di oggi invece discutono di ecologismo utopistico dannoso per metalmeccanici e famiglie, diritti vagamente declinati, e di altre amenità che vanno tanto di moda nella Milano da bere ma poco nelle periferie, olezzano di fragranze radical chic e new age, che nulla hanno a che vedere con la fatica dei disperati che dicono voler rappresentare.

Elly Schlein si è affrettata a dire che “questa volta non li hanno visti arrivare”, con un linguaggio tipico dei film western, come se avesse teso un agguato all’altra parte. Purtroppo per lei, cosa si muoveva in suo favore e il gran polverone che intorno a lei è stato sollevato perché non si capisse di cosa si trattasse era facilmente osservabile: lei era il “nuovo” che avanzava con lo stravecchio che spingeva da dietro. I suoi grandi elettori sono stati Nicola Zingaretti, Andrea Orlando, Goffredo Bettini, Francesco Boccia, Antonio Misiani, Pierluigi Bersani, Roberto Speranza e l’immarcescibile Dario Franceschini, “il vicedisastro” epitetato così da Matteo Renzi, vicino e sostenitore di tutti i segretari del Pd. L’effetto camuffamento è comunque riuscito, facendo credere alla maggioranza di quelli che sono andati a votare alle primarie che la Schlein fosse il rinnovamento, solo perché donna, già volontaria nella campagna elettorale di Barack Obama, con tripla nazionalità (americana, svizzera e italiana) e non compromessa con le passate gestioni perché solo recentemente iscritta al partito: la perfetta anti-Giorgia. Insomma, una grande operazione politica e d’immagine, complimenti a chi l’ha pensata, che ha cambiato tutto, non per non cambiare nulla ma per tornare indietro al vecchio Partito comunista riverniciato arancione: meno “lavorista”, niente affatto pacifista e più progressista. Nessuna rivoluzione né piccola né grande, solo una modesta involuzione.

Contestualmente con questa scelta i dirigenti del Pd hanno aperto, ovviamente una dura competizione a sinistra con il Movimento 5 stelle di Giuseppe Conte, tra le note di giubilo del centrodestra e di Renzi, che però dovrà spiegare a Carlo Calenda che l’amoreggiamento con il Pd, che lui immaginava, è definitivamente finito. Detto questo però la domanda nasce spontanea: e a destra quando si aprirà un confronto simile a quello delle primarie del Pd sui temi politici, economici e sociali?

Se c’è una nota positiva che queste giornate “democratiche” hanno lasciato è che gli elettori vogliono decidere la linea politica e chi li rappresenta. D’altronde, proprio Fratelli d’Italia nacque in contrapposizione a Silvio Berlusconi, come scissione dal Pdl proprio per la mancata convocazione delle primarie del centrodestra. L’ultimo congresso riconducibile all’area di Fratelli d’Italia in cui si contrapponevano due visioni culturali fu il XVI Congresso del Msi che si tenne a Rimini dall’11 al 14 gennaio 1990, in cui si sfidarono la destra e la sinistra del partito rispettivamente incarnate da Gianfranco Fini e Pino Rauti, che alla fine prevalse. Li furono presentate due mozioni che mettevano al centro due possibilità di evoluzione per la destra italiana: quella di Fini liberalconservatrice filoatlantica e quella di Pino Rauti più sociale e antiamericana, che in quel congresso uscì vittoriosa. La sconfitta alle amministrative e alle elezioni regionali in Sicilia del 1991 poi riaprì i giochi interni ed il Comitato centrale del partito affidò la segreteria di nuovo a Gianfranco Fini e questo fu il preludio della nascita di Alleanza nazionale e della prima esperienza al governo nazionale degli eredi di Giorgio Almirante.

La metamorfosi della destra postfascista, fu travagliata ma anche molto elaborata, grazie proprio ai congressi in cui si dibattevano, anche aspramente tesi con posizioni diverse: un confronto critico che preparò il terreno su cui poi Giorgia Meloni ha edificato il suo successo. Importante fu il duello tra Almirante e Rauti a Napoli nel 1979, al XII Congresso, in cui la minoranza rautiana sosteneva che del fascismo si doveva cogliere soprattutto l’afflato di “sinistra”, antiborghese e rivoluzionario “non riconducibile alla destra”, e quella maggioritaria e diretta anche da Pino Romualdi che propendeva per una apertura verso la destra nazionale. Questo solo per dire che se nel campo del centrodestra di oggi non si aprirà un momento di confronto autentico e soprattutto franco e libero, che non può essere quello di conferenze programmatiche che non programmano nulla, se non sfilate con bandiere tricolore su passerelle tra un pubblico plaudente, questo schieramento rischia di finire dell’inconcludenza e nel chiudersi le porte del futuro, con la possibilità di un’involuzione culturale che a parole si dice di voler contrastare.

Purtroppo le pulsioni “indietriste” ci sono e ci saranno sempre, il problema è come non farle prevalere. Questo compito però non può essere demandato solo a chi oggi riveste ruoli attivi nel governo, che comunque dovrebbe promuoverle nel suo stesso interesse, ma anche a tutte le forze culturali che si agitano in quest’area: fondazioni, case editrici, giornali, riviste, associazioni, e singole personalità. È un grave errore pensare che le “primarie” del centrodestra si fanno nelle urne, sia perché i candidati sono imposti dall’alto e non hanno o quasi collegamento con la società, sia perché in quel momento non si sceglie la politica della coalizione ma una proposta di governo, che spesso è vaga e/o ambigua perché necessariamente elettoralistica. Si dovrebbero, invece, organizzare su temi concreti e specifici. Un esempio?

La guerra in Ucraina. L’ultima rilevazione demoscopica presentata in una nota trasmissione televisiva, ci dice che oltre la metà degli italiani vorrebbe che si concludesse quanto prima e che l’Italia non fornisse più armi, men che meno caccia, a Volodymyr Zelensky per il rischio di un pericoloso allargamento di un conflitto ai territori Nato; contestualmente si rileva però una grande popolarità del Governo Meloni. Ma che succederebbe se questa idiosincrasia tra richiesta dal basso venisse a divergere dall’azione dall’alto? Quanto sopravviverebbe in una liberaldemocrazia come la nostra un governo senza un consenso diffuso e senza idee chiare? In genere queste problematiche si chiariscono proprio all’interno dei congressi o delle conferenze programmatiche nel dibattito serrato, nello scontro critico e con la capacità dei leader di conciliare istanze articolate e diverse. Questa destra avrà mai il coraggio del dubbio per accettare la sfida di un confronto interno? Prima o poi, comunque e a prescindere, i nodi verranno al pettine.


di Antonino Sala