giovedì 16 febbraio 2023
Silvio Berlusconi è stato assolto anche nel processo “Ruby ter” perché “il fatto non sussiste”. L’istruttoria è durata nove anni ed è stata l’86esima che lo stesso Cavaliere ha subito in circa trent’anni. Solo in uno di questi dibattimenti Berlusconi è stato condannato in via definitiva, ma su quella sentenza pesano ombre serie a detta – in articulo mortis – di uno della terna di magistrati stessi della Cassazione, cioè che forse fu costretto a sottoscrivere quel giudizio.
Per gran parte del passato trentennio, la democrazia italiana è stata condizionata, influenzata negativamente, e praticamente bloccata, da quei processi, che non pochi definiscono “politici”, anche perché hanno goduto dell’appoggio di una sinistra miope e suicida e di una serie di grandi mass media illiberali (visibilmente influenzati dal potere politico e da quello di alcuni procuratori d’assalto, forse motivati pure da convinzioni ideologiche personali e da protagonismo personale). Quei processi hanno sensibilmente fuorviato l’opinione pubblica e molti cittadini, ancora oggi, giudicano Silvio Berlusconi un malfattore, votato spesso da una maggioranza di italiani “sciocchi” o “corrotti” e, comunque, “influenzati dalle sue Tv”.
Nessun altro cittadino al mondo è stato mai sottoposto a una simile prova. Ed è un vero miracolo che, a quanto è dato sapere, la sua salute e la sua vita non ne siano risultate gravemente compromesse, come successe a metà degli anni Ottanta al povero Enzo Tortora. In altri Paesi, se alcuni magistrati mostrassero un trentennale accanimento verso un cittadino, vieppiù se si trattasse di un leader politico d’opposizione all’establishment dominante oppure di Governo; se soltanto inducessero l’impressione di avere usato gli uffici giudiziari come un’arena ideologica e politica e facessero spendere all’erario (cioè, ai loro concittadini) somme enormi per processi fortemente inquinati da un sospetto di persecuzione, privata o politica che sia, risolta in una bolla di sapone, verrebbero probabilmente invitati perentoriamente a cambiare mestiere. E molti chiederebbero che fossero chiamati a risarcire la vittima di turno, e l’erario, per le loro “imprudenze”. Anche i leader politici e i giornalisti che avessero tenuto bordone ad accuse rivelatesi poi infondate, o viziate da partigianeria, sarebbero chiamati a rispondere politicamente o professionalmente. Ma in Italia no. Le ripetute assoluzioni del “puzzone” di turno, di colui che veniva definito un “caimano”, un “cavaliere nero golpista”, un “pericolo per la democrazia”, vengono prese ormai come un fatto scontato – e forse anche sospetto – che non deve avere conseguenze. E che, soprattutto, non tocca la coscienza morale e civile, né la responsabilità di chi, rivestendo la toga della giustizia, se la cava, affermando che “non ha fatto che il suo dovere” e che tutti quei processi erano “atti dovuti”.
Molti ci hanno creduto oppure moltissimi hanno fatto finta di crederci. Come noi, per conformismo italico, e soprattutto per carità di Patria, facciamo qui solo perché sarebbe terribile per la democrazia liberale italiana, per l’autostima e la coscienza morale nazionale, se quei processi non fossero “atti dovuti”. E, soprattutto, se quasi tutti gli italiani, compresi molti accusatori severi e accaniti, in cuor loro lo avessero saputo da sempre.
di Lucio Leante