Costituzione e canzonette

venerdì 10 febbraio 2023


A vedere l’omelia di Roberto Benigni a Sanremo sulla “Costituzione più bella del mondo” (di cui è l’interprete certificato), mi è venuto in mente quello che scriveva Massimo Severo Giannini della sovranità del popolo – e può essere adattato alla Carta nel frangente – cioè che il popolo sovrano esiste solo nelle canzonette. Non posso dire, con certezza, quale dei molti significati possibili tale espressione volesse privilegiare. Se quello dei realisti politici, cioè che a governare è sempre la classe dirigente e non le norme né le “masse”. O meglio, che nella fattispecie il giurista pensasse alla tesi di Lelio Basso (e non solo), che la sovranità (del popolo) italiano fosse andata persa con la sconfitta in guerra e la subordinazione al vincitore più potente. Oppure, che facesse riferimento all’incapacità del popolo di dirigere una macchina così complessa (e altro). Tuttavia, resta il fatto che il pistolotto sul palco dell’Ariston ha collocato la Costituzione nel posto che l’ironia di Giannini ha assegnato alla sovranità: quindi nelle canzonette (o almeno tra di esse). E anche il ritornello che la Costituzione sia la più bella del mondo esprime una (profonda) verità, da collegare per l’appunto (anche) alle canzonette.

Attribuire il predicato della bellezza è un giudizio estetico: si può legittimamente dire che è bella la Vittoria di Samotracia, ma è più bella un’auto di Formula Uno (come sosteneva Filippo Tommaso Marinetti), che lo è la Carmen o la Nona Sinfonia. Può piacere il Giudizio universale di Michelangelo e l’Entierro del Conde de Orgas di El Greco. A ogni modo, nessuno attribuirebbe il bello a un sant’uomo quale (primo) giudizio positivo; o che San Francesco e San Martino, donando beni ai poveri, avessero fatto una bella azione anziché buona. Ovvero che era bello il Piano Marshall ed erano brutte le riparazioni del Trattato di Versailles. Pensando al diritto, è bello il corpus juris e brutto l’Editto di Rotari. A seconda delle attività umane vi sono delle qualificazioni – positive o negative – appropriate alla natura delle stesse. Per le Costituzioni, da Polibio in poi passando per Louis de Bonald, il giudizio positivo è dato (prevalentemente) dalla durata e dall’aver contribuito all’indipendenza e alla potenza dell’unità politica.

Ci sono anche le Costituzioni belle, ma così belle che non furono mai applicate, come quella giacobina francese o quella polacca del 1791 (tra l’altro la prima Costituzione europea scritta che durò pochi mesi). Dare un attributo positivo (e improprio) di bellezza non le distingue (e non le santifica). Comunque, nel chiamare bella la Costituzione vigente c’è qualcosa di vero e di necessitato. Vero perché, se non la più bella del mondo, quella italiana è un compromesso, tuttora appetibile, almeno sul piano dei principi tra diritti umani, sociali ed economici, cui hanno contribuito le più influenti culture politiche del XX secolo. D’altro canto, dati i risultati degli ultimi trent’anni, non resta che riferirsi al testo piuttosto che alla sua “applicazione”, in particolare a quella più recente. E ai partiti che si sono più “intestati” la difesa della Costituzione, come il Partito Democratico, riportando un consenso deludente che dimostra, semmai, come l’entusiasmo verso la stessa sia variegato ma ormai minoritario.

C’è un’altra ragione perché il giudizio sulla bellezza della Costituzione abbia, comunque, un significato. Le opere d’arte definite belle sono un frutto dell’immaginazione umana, del poeta, del musicista o del pittore. La Divina Commedia è una straordinaria costruzione dell’immaginazione e non un atlante del pianeta e dell’universo. Come gli orologi di Salvador Dalì non sono un prodotto della tecnica o la Venere di Sandro Botticelli un disegno di anatomia. O che Astolfo sia stato sulla Luna a cercare il cervello di Orlando. Tutti questi artisti hanno immaginato mondi, uomini, cose (ed imprese). La fantasia poetica e la bellezza ne hanno compensato l’irrealtà.

Ma in politica vale come principio generale quello di Niccolò Machiavelli, da me spesso citato, che è “più conveniente andare dietro alla verità effettuale della cosa che alla immaginazione di essa”. Ma proprio la “verità effettuale”, così modesta, costringe a illudersi, scambiando l’immaginario (bello) per il reale “brutto”. Come ormai, negli ultimi decenni, è abitudine consolidata.


di Teodoro Klitsche de la Grange