Un appello a Meloni per salvare il sistema penitenziario

lunedì 21 novembre 2022


Sono il presidente onorario del Cesp, Centro europeo di Studi penitenziari. Ho lavorato per circa 40 anni nelle carceri e sono diventato esperto penitenziarista, quantomeno, per accumulazione e stratificazione di esperienze, talvolta entusiasmanti, spesso estenuanti, accompagnando gli studi e la ricerca alla pratica amministrativa, ostinatamente, perché quel mondo continuava ad apparirmi bisognevole di una continua e doverosa cura. Ho diretto diverse carceri, anche contemporaneamente, e gestito da dirigente generale intere regioni, o gruppi di regioni, finanche contestualmente. Ho conosciuto i tanti istituti penitenziari che erano sotto la mia giurisdizione e ne ho visitato degli altri in Italia e in Europa. Potrei dire, paradossalmente, che conosca l’Italia attraverso le sue prigioni.

Ma non avrei preferito conoscerla attraverso i suoi parchi, i monumenti e le belle piazze perché le carceri sono per davvero una lente d’ingrandimento, una cartina di tornasole, del nostro Paese, della nostra nazione, della nostra patria; ce ne fanno percepire l’anima ed i tormenti, nonché le inquietudini sociali.

Quando capitava di imbattermi in collaboratori di polizia o di altre discipline professionali che non fossero rigorosi nell’adempiere, lealmente, allo spirito delle leggi, assumevo, come era mio dovere, tutte le iniziative consentite per, anzitutto, metterli nelle condizioni di non nuocere e, contemporaneamente, intraprendere tutte le procedure previste per riportarle all’ovile, ove ci fossero concreti segnali di ravvedimento.

Talvolta alcuni sono entrati in uniforme per poi uscirne, dopo qualche tempo, senza. Succede, non c’è da scandalizzarsi, riguarda tutte le categorie e le professioni, nessun mondo è perfetto e chi dice il contrario ci sta raggirando: pure la più alta e divina autorità abramitica ebbe il suo Lucifero.

I colleghi, la generalità degli operatori penitenziari, gli stessi sindacalisti onesti, che si facevano davvero carico del benessere e della tutela dei propri colleghi, i quali non sono soltanto servitori dello Stato ma anche lavoratori, però mi ringraziavano.

Il lavoro in carcere, soprattutto per un poliziotto penitenziario, è durissimo e spesso sconosciuto o male conosciuto, perfino da quanti diventino Comandanti del Corpo della Polizia penitenziaria, ed è soltanto per amor di patria che non riporto fatti o aneddoti di quanti, appena nominati a tale rilevantissimo e ben remunerato incarico, non disdegnavano, candidamente, di affermare come non conoscessero la complessità del lavoro penitenziario ed il mondo delle carceri e dei cancelli, delle rivolte e dei suicidi, del personale sempre sottorganico, mentre, per converso, il numero delle persone detenute aumentava ininterrottamente, dimentichi di come pure essi avessero contribuito a rimpinzarlo di umanità prigioniera.

Era come dire che i falegnami delle migliaia di bare non avessero mai visitato, nel corso della loro vita, un cimitero, oppure, per sdrammatizzare, che i comandanti della portaerei non avessero mai solcato il mare e le sue tempeste: vi sareste fidati, Voi, di viaggiare su quella imbarcazione contando su una navigazione tranquilla?

Lavorare in carcere significa avere tanto self-control, preparazione giuridica, spirito di osservazione ed un sapiente e abile uso dello strumento del gesto e della parola. Ma anche capacità d’intervento, conoscenze di autodifesa e tecniche di contenimento delle aggressività altrui.

È un lavoro logorante, che mette ogni giorno l’operatore penitenziario, spesso praticamente da solo, di fronte a tutte le più drammatiche questioni sociali non affrontate o male decise dalla politica, pretendendosi, ipocritamente, che esse debbano essere risolte in chiave criminale e giudiziaria.

Ma tematiche come l’immigrazione, la tossicodipendenza, il disagio mentale e psichiatrico, il bullismo, i reati di genere e quelli soprattutto contro le donne, la disobbedienza civile organizzata, di destra, di sinistra o anarchica, allorquando si traduca in sabotaggio e rappresaglia, il radicalismo religioso, quando si declini in violenza fisica e terrorismo, sono tutti fenomeni che andrebbero affrontati anzitutto in chiave politica, sociologica, pedagogica e non con pandette e sentenze, quando va bene.

Se il mondo è complesso, il carcere è la concentrazione plastica di tutte le sue complessità.

Ai poliziotti penitenziari, invece, si chiede spesso la luna: la nostra fortuna è che si tratta di un piccolo esercito di padri e madri di famiglia, di gente che prima di entrare in carcere, non poche volte, cercando di non essere vista, si genuflette, come i campioni del calcio quando scendono in campo, e si fa rapidamente il segno della croce.

Ricordo ancora oggi un mio leale e serio collaboratore (in verità ne ho avuti tanti), un ispettore superiore, grande e grosso, tutta una fusione di muscoli e nervi, capace perfino di buttarsi in mezzo alle fiamme per fare il suo dovere. Sempre a mio fianco in tante situazioni critiche le quali, ove ci fossero sfuggite di mano, avrebbero determinato drammi e lutti, ebbene, prima di assumere servizio, si fermava innanzi al suo armadietto metallico in caserma, trasformato in un piccolo altarino, e con il suo forte accento napoletano recitava una breve preghiera e baciava le tante immagini di cristi e santi incollate dietro l’anta di alluminio. Fervido esempio di religione penitenziaria che chiede protezione a Santa Addolorata Carcerazione.

Purtroppo, già da diversi anni, troppi, qualcosa è cambiato nelle carceri: l’improvvisazione ha preso il sopravvento rispetto alle competenze di altissima amministrazione che erano necessarie; come in una recita di dilettanti, si sono avvicendate sul proscenio figure che non portavano ossigeno ma che lo sottraevano, o che lanciavano il copione sul suggeritore. Magistrati al vertice dell’amministrazione che nulla conoscevano di carcere, se non come il luogo dove avevano spedito i loro indagati o imputati, o dove c’erano i condannati per i quali non si chiedeva soltanto di espiare le proprie pene detentive, come la Costituzione prevede, ma anche di contribuire, semmai dopo trenta/quarant’anni dalla commissione dei reati, alla formazione delle accuse da rivolgere ad altri, ancora delinquenti e semmai latitanti, se non anche per favorire la costruzione di nuovi miti ed eroi.

Anche il personale penitenziario non di polizia, una volta indirizzato al trattamento e alla risocializzazione delle persone detenute (motto degli agenti di custodia: “Vigilando, redimere”), percepiva la mutazione del carcere come luogo del processo penale infinito e delle trame sempre occulte e mai risolte.

Non sono stati, però, i direttori delle carceri, di cui sono stato fiero rappresentante di categoria per quasi 8 anni, a far mutare ed incupire il clima penitenziario italiano, forse tra i peggiori in Europa, a motivo soprattutto della scarsa certezza della tipologia di trattamento penitenziario che subirà la persona detenuta, spesso legata alla fortuna della stessa nell’incontrare, anche per caso, un raro educatore o una preziosa assistente sociale, oppure uno psicologo che se ne faccia professionalmente carico. L’indeterminazione, se non la casualità del trattamento e dell’osservazione della personalità del ristretto, troppo spesso risulta condizionata da tanti fattori negativi, quali la carenza di personale, la inidoneità dei luoghi dove potere sorvegliare in sicurezza e controllare le condotte, le posture, gli scatti d’ira o le inquietudini, gli scoramenti ed il ripensamento, il ravvedimento operoso e la voglia di positivo riscatto o la scelta definitiva nel crimine, la capacità di aggregazione per fare del male, oppure, al contrario, vivere la comunità detentiva, e le opportunità che andrebbero offerte, con spirito costruttivo e di reale reinserimento.

Così come si mostrano, le nostre carceri sembrano in verità aggiungere difficoltà piuttosto che sottrarle; sicurezza e trattamento sembrano obiettivi auspicati e non obblighi che lo Stato deve perseguire, misurando costantemente i risultati, senza doversi affidare esclusivamente alla sorte o al buon cuore di enti benefattori o del terzo settore, trattando tra l’altro gli operatori di tali realtà come intrusi o bassa manovalanza.

Mi vergognavo quando indicavano le carceri che dirigevo come luoghi di eccellenza, e non perché non lo fossero, ma perché significava che avevamo fallito come sistema, perché un sistema pubblico funzionante, che eroghi servizi, deve essere seriale, ripetitivo, capace di garantire eguali prodotti sociali ad ogni latitudine e longitudine, meridiani e paralleli: soltanto così recuperiamo, in modo alternativo e positivo, il concetto di carcere costituzionalmente orientato.

Purtroppo, invece, è accaduto che non soltanto il personale penitenziario sia stato progressivamente indirizzato in chiave esclusivamente securitaria e all’indifferenza – soprattutto la polizia penitenziaria, la quale ha perfino cominciato, con i suoi sindacati, a chiedere di essere impegnata “fuori” dalle carceri, riducendo la propria mission a quella di meri sorveglianti del perimetro esterno – ma che le scelte politiche e di alta amministrazione andassero vero la riduzione dello stesso numero degli agenti, grazie ad una visione scellerata (essa sì davvero criminale) di tagli e di contrazioni progressive di personale, introducendo un concetto vago di sorveglianza dinamica, dove il dinamismo semmai ottenuto è stato quello di dare la stura a strategie “individuali”, caratterizzate dalla fuga degli operatori di tutti i ruoli e comparti dalle carceri, cercando i fortunati di essere destinati ad altri compiti, semmai di mera natura amministrativa e in palazzi distanti da quelli immondi, fatti di cemento, cancelli, sbarre, evasioni e suicidi.

Gli agenti residui che continuano a lavorare in carcere, quelli non coperti da guarentigie sindacali, o perfino politiche (sapete che vi sono realtà regionali, in particolare il Veneto, che ad ogni sacrosanta elezione locale, in sperduti borghi montani, in comuni con meno di mille abitanti, le liste sono tronfie di agenti che, pur non risiedendovi, vengono ingaggiati per le relative competizioni, oppure chiedono di esserlo, potendo così fruire di lungi periodi di distacco per motivi elettorali, ovviamente pagati dallo Stato, per quanto, alla conta dei risultati, non raccoglieranno neanche il loro voto, non abitando lì?), si sono sentiti ancora più persi ed abbandonati, di fronte ad un ripetersi costante di eventi critici e violenze, al punto che v’è stata di recente una proposta di qualche autorevole sigla sindacale che ha esortato l’istituzione della figura del “Garante della Polizia penitenziaria”.

Allora io spero davvero che la Premier Giorgia Meloni, il Ministro Carlo Nordio, i sottosegretari Andrea Delmastro delle Vedove, Andrea Ostellari e Francesco Paolo Sisto, comprendano finalmente lo scoramento ed il disorientamento di quegli operatori penitenziari che sono rimasti nelle carceri; quella rabbia e quella delusione che possono far vacillare le coscienze più solide, con conseguenze disastrose che si aggiungono alla altrettanta rabbia, rancore, disperazione che vivono tante persone detenute, sotto quello che non è il comune cielo stellato di kantiana memoria, ma una fitta griglia di acciaio che non sa, e nemmeno potrebbe, distinguere le persone detenute da quelle detenenti.

Anche tale circostanza può, purtroppo, spiegare il costante rischio suicidario di agenti che non ce la fanno più, il quale si aggiunge a quello, devastante nei numeri, delle persone detenute.

Non voglio giustificare quanto di terribile e di drammatico, ancorché di illegale, si sia potuto verificare, ascoltando le cronache e guardando le immagini impietose di fatti gravi accaduti in diverse carceri italiane negli ultimi due anni, ma sarebbe una falsità affermare che sia stata una sorpresa.

Le cose che accadono, pure nello stesso momento in cui sto scrivendo, non sono mai frutto dell’oggi, bensì il risultato di una sequela di eventi che, mal governati da quanti avrebbero dovuto avere una visione anche predittiva degli esiti e, soprattutto, per la scarsa conoscenza del sistema, “naturalmente” trovano la propria maturazione.

Vengo da una cultura di destra, ma la legalità che mi insegnavano da adolescente, nelle sezioni di partito, è fatta di tutt’altra pasta: non c’è rigore, infatti, non c’è sicurezza né legalità, se non c’è sempre, comunque, il primato delle leggi e delle regole.

La criminalità, infatti, non si contrasta facendo, semmai, altra criminalità, ancorché si indossi il tocco o una elegante o approssimativa uniforme. Quando ciò accade, non c’è più democrazia ma si sta strangolando lo stesso concetto di libertà.

(*) Presidente dell’Osservatorio Internazionale sulla Legalità di Trieste; presidente onorario del Centro Europeo di Studi penitenziari di Roma; presidente dell’Osservatorio regionale Antimafia del Friuli-Venezia Giulia


di Enrico Sbriglia (*)