martedì 8 novembre 2022
Ci sono espressioni di voto rispettabili e altre che non lo sono? Alcuni benpensanti, abituati a considerare sé stessi come parte della “sinistra democratica”, come “progressisti” e “riformisti”, ritengono, ad esempio, che, a dispetto di tutti i limiti del Partito democratico, quello al Pd sia un voto del quale non ci si debba vergognare. Altra cosa il voto al partito di Giorgia Meloni. A lei non si perdona il vizio storico di essere “post-fascista”. Cosa c’entra il fascismo storico con la recente esperienza di Fratelli d’Italia? Proprio niente. Il regime fascista poté affermarsi grazie allo strumento operativo della Milizia. Decine e decine di migliaia di ex combattenti della prima guerra mondiale, presenti in ogni parte d’Italia, costituirono il braccio armato del fascismo. Avevano respirato il clima di violenza ed il disprezzo della vita umana, propri della guerra.
Avevano maturato un’esperienza di combattimento militare. Disponevano di armi (non soltanto fucili e bombe a mano; talora, anche mitragliatrici). C’è qualcosa oggi, nel nostro Paese, di paragonabile, anche alla lontana, alla presenza di massa di quella Milizia? Possiamo sì trovare qualche migliaio di straccioni, i quali amano fare il saluto fascista e, ogni tanto, cercano di praticare la violenza. Dal punto di vista dell’ordine pubblico, però, non costituiscono un problema. Non rappresentano certamente la forza del partito della Meloni. Semmai, lo indeboliscono.
A me piace professarmi antifascista. Venero la memoria di martiri antifascisti quali Piero Gobetti, Giovanni Amendola, Leone Ginzburg. Aggiungo, per non sembrare che voglia ricordare esclusivamente i caduti di cultura liberale, Giacomo Matteotti, Carlo Rosselli, Antonio Gramsci. Ricordo con ammirazione e rispetto antifascisti quali Ernesto Rossi: lui, ad esempio, durante il regime fascista, trascorse nove anni in carcere e quattro al confino. Ciò che non è meno importante, mi sono formato politicamente leggendo gli autori dell’opposizione liberale al fascismo; su tutti: Benedetto Croce e Adolfo Omodeo.
Giorgia Meloni è un’ottima professionista politica; in più ha una visione e degli ideali. Si comprende, tuttavia, che, da buona professionista della politica, cerca di non impiccarsi ai princìpi, ma sa essere realista. I rapporti che ha dichiarato di voler mantenere con l’Alleanza Atlantica, gli Stati Uniti d’America e l’Occidente, probabilmente corrispondono a sue convinzioni soggettive. Si tratta anche, però, di scelte necessitate; altrimenti non le avrebbero consentito di assumere la carica di Presidente del Consiglio dei ministri.
Cosa può unire un liberale di tradizione risorgimentale quale io sono, con il Partito della Meloni? L’amor di Patria. Anche se patriottismo e nazionalismo sono concetti molto diversi. Il patriota ama la propria lingua, la propria cultura, la propria letteratura, i propri costumi e tradizioni; ma rispetta effettivamente tutti gli altri popoli e mai si sognerebbe di ricorrere alla violenza e alla prevaricazione nei loro confronti. Del resto, abbiamo conosciuto “l’imperialismo straccione” di Benito Mussolini. “Straccione” perché non è certamente il numero dei cittadini, non sono gli otto milioni di baionette, non è la retorica, a rendere una nazione una “grande potenza”.
Nella seconda guerra mondiale il divario fra le Forze armate italiane e quelle degli Stati Uniti, o del Regno Unito, era talmente evidente, da apparire scandaloso. Stiamo parlando di un deficit di armamenti, di tecnologia, di mezzi, di efficienza organizzativa, di logistica. Eppure, gli italiani furono costretti ad entrare nella seconda guerra mondiale. Conobbero lutti e devastazioni ed ancora, dopo 77 anni da quella sconfitta che dobbiamo al fascismo, scontiamo la non felice condizione di Paese a sovranità limitata. Piaccia o non piaccia ammetterlo, gli Stati Uniti d’America non sono soltanto il nostro principale alleato. Sono anche il nostro padrone.
Giorgia Meloni, nel contesto del Parlamento europeo, è presidente del gruppo dei Conservatori. La parola, in Italia, non ha mai avuto fortuna: il nostro è il Paese dei demagoghi e professarsi conservatori sembra una deminutio. Vuoi mettere come suona meglio dirsi rivoluzionari, o riformatori, o progressisti? Eppure, secondo me, la prospettiva da perseguire è proprio quella di costituire anche in Italia un grande Partito conservatore. In generale, bisogna conservare le condizioni ambientali, climatiche, sociali, affinché il pianeta Terra continui ad essere un habitat favorevole alla vita del genere umano. Il che significa anche che la popolazione mondiale non può continuare a crescere illimitatamente. Che prima o poi bisogna convincersi che non si può continuare a promettere a tutti standard di vita elevati, sotto forma di diritti umani universali.
Nello specifico italiano, un partito conservatore dovrebbe puntare a risolvere quelli che sono i due mali storici del nostro Stato: il disordine organizzativo e l’inefficienza amministrativa. Gli italiani, presi singolarmente, spesso eccellono per i propri talenti e la propria creatività; non sanno, però, lavorare insieme. Mancano del più elementare senso di disciplina, per raggiungere obiettivi di interesse comune. Sono, tendenzialmente, anarchici. Come già avvenne con la “Destra storica”, ossia con l’élite politica che si riconosceva nelle politiche di Camillo Benso di Cavour e che governò fino al 1876, bisogna riprendere a coltivare l’ideale di uno Stato ordinato, efficiente, che non sprechi il denaro pubblico, ma anzi lo valorizzi. Uno Stato che sappia premiare i cittadini più laboriosi, meritevoli e capaci. Che, nel contempo, sappia reprimere e punire i malavitosi e i farabutti.
La scelta conservatrice ha tanto più ragion d’essere affinché si arrivi, finalmente, ad una vera riforma dell’Unione europea. Io trovo profondamente illiberale che, in seno al Parlamento europeo (oggi, purtroppo, monocamerale), una maggioranza di tedeschi, di francesi, di italiani, di olandesi, di danesi e svedesi, possa imporre ad una minoranza di polacchi, di ungheresi, di slovacchi, quali disposizione di legge debbano adottare in materie eticamente sensibili, o con evidenti implicazioni religiose. Come il divorzio, l’interruzione volontaria della gravidanza, le unioni civili fra persone dello stesso sesso, l’adozione di bambini da parte di tali unioni, l’assunzione di droghe e sostanze psicotrope.
Si tratta di una visione “giacobina” del Parlamento europeo e dell’Unione europea. Io, invece, da storicista e da liberale, penso che sia sbagliato pensare che un’unica regola, perfettamente razionale (almeno, in apparenza), “illuminista”, debba imporsi ovunque a tutti gli esseri umani. Serve l’Europa delle Nazioni, o delle Patrie, già teorizzata da Charles De Gaulle. Bisogna che l’Unione europea eserciti sul piano federale (o confederale, che dir si voglia) un certo numero di competenze. Le quali non possono essere esercitate a livello dei singoli Stati membri, perché la competizione globale in ambito internazionale non lo consente più.
Mi riferisco alla moneta, all’approvvigionamento energetico, alla ricerca scientifica e tecnologica, alla protezione dell’ambiente, agli indirizzi fondamentali della politica commerciale, alla politica estera e della difesa. Per tutto il resto, ogni Stato membro deve essere perfettamente libero di governarsi come meglio ritiene, in coerenza con la propria storia, costumi e tradizioni. Ciò significa che uno Stato non possa cambiare? Certo che sì. Soltanto che lo deve fare liberamente. A nulla serve copiare i modelli stranieri. Commentando l’esperienza storica della Rivoluzione napoletana del 1799 Vincenzo Cuoco la definiva rivoluzione “passiva”. Copiata dalla Francia, dove però esisteva una borghesia potente, consapevole del proprio ruolo sociale. Nulla di simile si riscontrava allora nel Napoletano. I nostri attuali “giacobini”, tipo Enrico Letta, continuano ad auspicare rivoluzioni “passive”, in cui i presunti ideali di progresso si impongano con la forza a chi, secondo loro, è storicamente attardato.
Il presidente Meloni riuscirà ad imprimere una svolta effettiva nella politica italiana? Può darsi di no; perché le difficoltà sono effettivamente molte e molto rilevanti. Anche la compattezza della maggioranza è tutta da dimostrare. Tentare, tuttavia, è sempre meglio che rassegnarsi al tran tran di cui il Partito democratico è maestro. Tra le principali cose che vorrei il governo Meloni facesse c’è quella di trovare soluzioni che consentano di arrestare i flussi di migranti dall’Africa alle nostre coste. Il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, ha detto cose sensate, riprendendo una antica polemica con le navi utilizzate dalle Organizzazioni non governative (Ong). Tutti hanno chiaro che i trattati e le convenzioni internazionali sul soccorso in mare sono per lo più richiamati a sproposito. Molti osservatori fingono di non accorgersi che si tratta di una fattispecie del tutto nuova. Quelle utilizzate dalle Ong non sono navi abilitate al trasporto passeggeri, previo pagamento di un prezzo, lungo rotte fisse e regolari. Non sono navi utilizzate per attività commerciali. Non sono pescherecci. Non sono imbarcazioni da “diporto”. Stanno in mezzo al mare esclusivamente per finalità “umanitarie”. In altre parole, non compiono salvataggi quando eccezionalmente ne ricorrano le condizioni; ma stanno lì apposta per organizzare salvataggi. Questa è la loro finalità istituzionale. Qualcuno, non a torto, ha paragonato queste navi a dei taxi.
Nel consorzio civile tutte le navi devono battere la bandiera di uno Stato. Il quale, in linea teorica, dovrebbe assumersi qualche responsabilità circa il loro operato. Altrimenti, si tratterebbe di navi “pirata”. La Norvegia e la Germania hanno concesso la propria bandiera alle quattro ultime navi che, cariche di immigrati, cercano attualmente di sbarcare nel porto di Catania. Norvegia e Germania, tuttavia, si guardano bene dal farsi coinvolgere nell’attività delle Ong che utilizzano le navi. È un po’ troppo comodo. Basti considerare che le Ong sono organizzazioni private e la volontà di un’associazione privata non può (e non deve) prevalere sulla politica decisa da uno Stato sovrano. Vorrei vedere cosa accadrebbe se navi battenti altra bandiera scaricassero ingenti quantità di immigrati in Norvegia, contro il volere del governo norvegese, o in Germania, contro il volere del governo tedesco.
A differenza di quanto si ritiene, la soluzione non sta nel ripartire i migranti tra tutti i Paesi membri dell’Unione, in proporzione alla loro popolazione. Contro tale soluzione di maldestro automatismo si sono opposti formalmente gli Stati del cosiddetto “blocco di Visegrád”, formato dall’Ungheria, dalla Polonia, dalla Repubblica Ceca, dalla Slovacchia e, in parte, dall’Austria. Per quanto mi riguarda, sono d’accordo con la linea di questi Stati.
Quindici Stati membri dell’Unione hanno una popolazione inferiore a dieci milioni di abitanti. Perché mai i singoli Paesi europei dovrebbero accettare di “snaturarsi”, di perdere la loro natura tradizionale, la quale, magari, è molto antica? Perché mai dovrebbero accettare di farsi sommergere, progressivamente, da una marea umana rispetto alla quale i punti di contatto sono minimi (risolvendosi nella comune appartenenza al genere umano) e le differenze culturali sono pressoché infinite? Per chi non conosca le caratteristiche demografiche degli attuali Stati membri dell’Unione europea, è opportuno ricordare che soltanto cinque Stati hanno una popolazione superiore a 35 milioni di abitanti: Germania, Francia, Italia, Spagna, Polonia. Questi Paesi potrebbero “resistere” per più tempo alla completa perdita della propria identità nazionale.
Qualora, tuttavia, si affermasse definitivamente il presupposto ideologico secondo cui ogni essere umano (ciò significa, potenzialmente, oltre un miliardo di africani) abbia diritto di migliorare le proprie condizioni di vita e, quindi, di trasferirsi liberamente in altri Paesi più ricchi, civili e pacifici, anche i cinque Stati europei da ultimo richiamati avrebbero il destino segnato. Non ci sarebbe più l’Europa, ma un territorio che ha perso la sua fisionomia e le sue radici; non troveremmo più europei, ma una popolazione che ha in sé i caratteri di un “meticciato” universale. Prospettiva che può anche piacere ad alcuni; ma che, per quanto mi riguarda, respingo con la maggiore nettezza possibile.
di Livio Ghersi