lunedì 24 ottobre 2022
A cento anni dalla cosiddetta Marcia su Roma
Luigi Facta nacque il 13 settembre 1861 a Pinerolo, dove morì il 5 novembre 1930. Dopo aver conseguito la laurea in Giurisprudenza all’Università di Torino a soli 18 anni, divenne avvocato ed a 23 anni fu eletto nel Consiglio comunale di Pinerolo; a 31 anni divenne deputato in Parlamento nell’area giolittiana. Il suo ricco cursus honorum lo vide sottosegretario di Stato al Ministero di Giustizia e degli affari di culto (10 novembre 1903-31 marzo 1905) (31 marzo-30 dicembre 1905); sottosegretario di Stato al Ministero dell’Interno (31 dicembre 1905-10 febbraio 1906 – 1° giugno 1906-1 dicembre 1909); ministro delle Finanze (31 marzo 1910-30 marzo 1911 – 30 marzo 1911-21 marzo 1914 – 10 agosto 1920-4 luglio 1921), ministro di Grazia, Giustizia e dei culti (18 gennaio-23 giugno 1919); presidente del Consiglio dei ministri (26 febbraio-1° agosto 1922 – 1° agosto-31 ottobre 1922); ministro “ad interim” per le Terre liberate dal nemico (26 febbraio-14 marzo 1922); ministro dell’Interno (26 febbraio-1° agosto 1922).
Da ministro delle Finanze fu un oculato amministratore, attento a far quadrare il bilancio pubblico, ricorrendo anche a dure misure tributarie, come quelle derivanti dalle spese sostenute per l’impresa libica. Ai critici che non mancarono per il suo rigore fiscale, rispose che la sua opera di ministro delle Finanze non doveva essere stata così “completamente inutile, specialmente nei tempi nei quali era sommamente necessario badare attentamente alle finanze dello Stato. Taluni risultati – soggiunse – potrebbero essere per me ragione di orgoglio e potrei ora vincere, nell’intimità di questo mio scritto, l’avversione a mettere in luce la mia opera, avversione che mi fu da molti vari e dallo stesso sovrano più volte vivamente rimproverata”. Il 26 febbraio 1922, dopo la più lunga crisi dall’Unità d’Italia, Facta venne dunque nominato presidente del Consiglio, alla qual carica sarebbe stato confermato anche nel successivo Governo, che ottenne la fiducia della Camera il 10 agosto con 247 voti contro 121 (socialisti e comunisti); ma le tensioni sociali erano destinate ad aumentare, tra scioperi da un lato e scorribande degli squadristi dall’altro.
Il primo suo Governo, da alcuni considerato come una parentesi nell’attesa del ritorno di Giovanni Giolitti, ebbe l’appoggio dei popolari, nonostante l’avviso contrario di don Luigi Sturzo, ma con il benestare di Alcide De Gasperi e di Stefano Cavazzoni. Tale Governo manifestò sin dall’inizio un sincero e risoluto impegno a contrastare la violenza fascista, nonché a gestire la situazione dell’ordine pubblico nel suo complesso; ma ciò non bastò a fermare quella che con autocompiacimento Benito Mussolini chiamò “la fiumana fascista”. A due giorni dalla nomina, Facta aveva inviato ai Prefetti una circolare, che testualmente recitava: “Il Paese deve svolgere le sue fervide energie in un ambiente di concordia, di pace e di lavoro. E perciò indispensabile l’ordine, e questo non può derivare che dalla scrupolosa applicazione delle leggi, dall’imparziale tutela di ogni diritto, dalla serena e ferma autorità dello Stato, che è emanazione della collettività. I funzionari daranno a quest’opera (ne sono sicuro) tutta la loro rettitudine, tutta la piena coscienza dei loro doveri: in essi io ripongo la mia piena fiducia”.
Non volle scatenare una repressione che avrebbe potuto far scaturire una vera e propria guerra civile, nel convincimento che il fascismo fosse – al pari del socialismo – una sorta di passeggera febbre di crescenza della democrazia, in questo perfettamente in linea con la prudenza attendista di Giolitti, costituente il suo costante maestro e modello di riferimento. In tale contesto, tornò di attualità l’ipotesi di un Esecutivo che includesse oltre ai popolari anche i socialisti, per realizzare in tal modo una solida maggioranza parlamentare; ma sopraggiunse la crisi del Governo, sfiduciato per “non aver conseguito la pacificazione interna, indispensabile anche per la restaurazione economica e finanziaria del Paese”, con 288 voti contro 103. Uno degli obiettivi più importanti era stato quello di troncare l’unità d’azione in campo sindacale e cooperativo, tra socialisti e repubblicani; ma il primo governo Facta entrò in crisi in seguito ad una mozione presentata dai socialisti di Filippo Turati, che ne determinò le dimissioni il 19 luglio 1922, in esito alla denunzia effettuata contro il crescendo di intimidazioni, di aggressioni violente, di assassinii politici di cui si erano rese responsabili le camicie nere. Le devastazioni ebbero luogo in tutta Italia, specie nel Nord, con le più recenti a Cremona, messa a ferro e fuoco, ed a Novara; ma il governo Facta non rispose con la necessaria risolutezza, mentre i deputati fascisti votavano a favore della mozione per provocare la fine di quell’Esecutivo.
A Ravenna – come ricordato lo scorso 22 luglio dal presidente Sergio Mattarella in occasione della cerimonia commemorativa del centenario dell’assalto fascista alla sede della locale Federazione delle cooperative – si ebbe una “pagina di violenza, di devastazione e di morte, nel capitolo della nostra storia che avrebbe portato alla perdita della libertà per gli italiani, con l’avvio della stagione buia della dittatura fascista, nell’agonia dell’ordinamento monarchico-liberale”. Il Corriere della Sera del 23 luglio 1922, quotidiano espressivo degli orientamenti della borghesia liberale, pochi giorni prima degli eventi di Ravenna, aveva scritto: “Il fascismo è ormai arrivato a un punto del suo cammino in cui, se un mutamento di rotta non avviene, esso si troverà a essere soltanto un focolaio sovversivo della disgraziata Italia, una fazione – e se è grossa tanto peggio per la patria – deliberata di intendere l’ordine nello Stato come il “suo” ordine, secondo il suo arbitrio”. La pianura padana, in quegli anni, era divenuta teatro del disordine e della violenza delle bande fasciste, sostenute dagli ambienti agrari, contro le rivendicazioni del movimento contadino, che si era dotato di solide organizzazioni a partire dalle cooperative.
L’assalto alla sede della Federazione delle cooperative di Ravenna, si inseriva nelle scorrerie delle carovane che percorrevano la pianura padana e, dalle campagne e dai centri minori, puntavano alla conquista delle città ed all’abbattimento delle amministrazioni locali liberamente elette dai cittadini. Su quella città erano confluiti centinaia di squadristi armati dalle province di Ferrara e di Bologna, in quanto si voleva – è ancora Mattarella a ricordarlo – laddove non si era riusciti con il voto, soggiogare con la violenza la città, culla della cooperazione socialista e repubblicana, per conquistare definitivamente la Romagna. Facta, in ciò in buona compagnia con le figure di maggiore spicco del liberalismo (Giovanni Giolitti, Antonio Salandra, Francesco Saverio Nitti, Vittorio Emanuele Orlando), non aveva ben compreso l’intrinseca natura eversiva del fascismo, confidando di poterlo incanalare nella struttura dello Stato liberale, e quindi di poterlo in un certo qual modo “normalizzare”.
Giolitti in particolare aveva sottovalutato il movimento, ritenendolo una sorta di febbre passeggera della democrazia, destinata ad esaurirsi, così come non aveva compreso appieno le potenzialità eversive di Mussolini. Il 1° agosto vide la luce il secondo Esecutivo a guida Facta, di cui tornarono a far parte i Popolari con gli stessi ministri e sottosegretari del precedente, salvo il Ministero dell’Interno, di cui assunse la titolarità un prefetto di carriera, in luogo di Facta che in precedenza ne aveva avuto ad interim la titolarità. Il 17 agosto, malgrado il perdurante quadro di instabilità dell’ordine e della sicurezza pubblica, il presidente del Consiglio tornò alla natia Pinerolo per un lungo periodo di riposo, risolvendosi a rientrare a Roma solo il 6 ottobre, mentre la situazione generale del Paese era ormai degenerata, con un crescendo di diffusi disordini e manifestazioni di piazza, con le occupazioni fasciste di Bologna, Ferrara e Cremona. Il 21 ottobre la direzione del Pnf conferì i poteri apicali al quadrumvirato composto da Michele Bianchi, Italo Balbo, Cesare Maria De Vecchi e Emilio De Bono, programmando al contempo l’organizzazione di una marcia su Roma, con tre colonne che si sarebbero concentrate a Santa Marinella, Monterotondo e Tivoli. Facta aveva autorizzato l’adunata di un gran numero di fascisti a Napoli, dove avrebbe avuto luogo il Consiglio nazionale del partito nei giorni 23-24 ottobre. Giunti da tutta Italia nel capoluogo partenopeo in 40mila, nel corso di una pacifica adunata gridarono all’unisono “A Roma, a Roma!”.
La sera del 24 il futuro Duce parlò al teatro San Carlo, mantenendo toni di misurata prudenza; ma al di là della forma, all’Hotel Vesuvio furono dettagliati i piani della programmata mobilitazione, che prevedevano la cessione del potere ai quadrumviri nella notte fra il 26 ed il 27 ottobre, alla qual ultima data avrebbe dovuto iniziare l’occupazione delle Prefetture, delle Questure, delle stazioni ferroviarie, delle Poste, delle sedi dei giornali, della radio e di altri snodi strategici. Il 26 ottobre Facta aveva inviato questo telegramma al sovrano: “Informazioni improvvisamente giunte indicano possibilità qualche tentativo fascista. Governo provvederà energicamente. Mussolini fecemi sapere ieri che sarebbe disposto entrare Ministero anche con qualche rinunzia Portafogli chiesti, purché Ministero fosse presieduto da me. Per non tagliare via risposi suo incaricato che questa cosa era da esaminarsi insieme. Ciò allo scopo non dare appoggio qualche decisione precipitata. Mussolini dimostrò all’incaricato suo disappunto non avessi subito accettato. Ma come V.M. comprende, era impossibile per molte ragioni risposta decisiva.”
Il sovrano aveva risposto sobriamente che la proposta in questione poteva costituire un’opportuna soluzione alle difficoltà in atto, “perché – disse testualmente – il solo efficace mezzo per evitare scosse pericolose è quello di associare il fascismo al Governo nelle vie legali”. Si erano mobilitati 25mila fascisti per la Marcia, occupando tra il 27 ed il 28 ottobre municipi, centrali telefoniche e telegrafiche, prefetture. In conseguenza di ciò, il ministro dell’Interno Paolino Taddei aveva già disposto l’arresto dei capi del movimento fascista. La cosiddetta Marcia su Roma avrebbe avuto luogo dopo mesi di violenze squadriste contro sedi e iscritti di partiti e sindacati di Sinistra, senza che il Governo fosse stato in grado di fermarle. Il 28 le tre colonne avrebbero dovuto muoversi verso la città eterna; ma Mussolini – dopo aver rifiutato l’invito rivoltogli da Facta a venire nella capitale per un incontro – preferì evitare ogni suo diretto coinvolgimento, scegliendo prudentemente di partire per Milano, da dove avrebbe potuto monitorare la piega degli avvenimenti, senza restarne personalmente coinvolto in caso di fallimento della progettata marcia.
La notte tra il 27 ed il 28 il Consiglio dei ministri aveva deliberato la proclamazione dello stato di assedio sull’intero territorio nazionale, a cominciare dal mezzogiorno del 28. Detto Consiglio si era riunito in seduta permanente al Viminale ed aveva diramato questo proclama: “Manifestazioni sediziose avvengono in alcune province d’Italia, coordinate al fine di ostacolare il normale funzionamento dei poteri dello Stato e tali da gettare il Paese nel più grave turbamento. Il Governo, fino a quando era possibile, ha cercato tutte le vie della conciliazione, nella speranza di ricondurre la concordia negli animi e di assicurare la tranquilla soluzione della crisi. Di fronte ai tentativi insurrezionali, esso, dimissionario, ha il dovere di mantenere con tutti i mezzi ed a qualunque costo l’ordine pubblico. E questo dovere compirà per intero a salvaguardia dei cittadini e delle libere istituzioni costituzionali. “Intanto i cittadini conservino la calma e abbiano fiducia nelle misure di pubblica sicurezza che sono state adottate. Viva l’Italia! Viva il re!”.
Pertanto, il Governo onde impedire l’arrivo a Roma delle squadre fasciste, ordinò l’interruzione delle linee ferroviarie e, contemporaneamente per evitare i contatti tra la Direzione del movimento fascista e le sue diramazioni locali, sospese il servizio telefonico pubblico ed instaurò la censura telegrafica. Dopo un breve riposo, sabato 28 Facta si recò al Viminale, dove convocò per le 4.30 del mattino il Consiglio dei ministri, che su proposta del ministro degli Interni, decise la proclamazione dello stato di assedio in tutta Italia, a partire dal mezzogiorno. Alle 6.30 Facta emanò il proclama ufficiale, ed un’ora dopo insieme al ministro degli Interni Taddei diramò ai Prefetti questa circolare: “Il Governo, su unanime decisione del Consiglio dei ministri ordina Signorie loro di provvedere a mantenere ordine pubblico e ad impedire occupazione uffici pubblici, consumare azioni violente e concentramenti e dislocamenti armati usando tutti i mezzi a qualunque costo, e con arresto immediato e senza eccezione capi e promotori del moto insurrezionale contro i poteri dello Stato”. Tuttavia, quando alle 9 il presidente del Consiglio si presentò al re al Quirinale – come precedentemente concordato durante un incontro alla stazione ferroviaria di ritorno dalla Tenuta di San Rossore – per presentare alla firma il decreto per lo stato di assedio, ricevette un rifiuto e dovette tornare al Viminale per riferire della nuova situazione al Consiglio dei ministri.
Vittorio Emanuele III si era rifiutato di firmare il decreto in parola, per motivazioni imperscrutabili, forse anche per timore che il Duce favorisse la sua sostituzione al trono con il cugino di simpatie fasciste Emanuele Filiberto Duca D’Aosta: al presidente del Consiglio non restò che rassegnare le dimissioni, dopo la riunione del Consiglio dei ministri protrattasi dalle 16.30 alle 20.15 e conclusasi con questa dichiarazione: ”Il Consiglio dei ministri, presa in esame la situazione politica, ha deliberato di presentare a sua Maestà il Re le sue dimissioni”. “Queste decisioni – aveva affermato il Re innanzi all’esterrefatto interlocutore – spettano soltanto a me. Dopo lo stato d’assedio non c’è che la guerra civile. Ora bisogna che uno di noi due si sacrifichi”. Il presidente del Consiglio aveva replicato nell’unico modo possibile innanzi a tale affermazione: “Vostra Maestà non ha bisogno di dire a chi tocca la pena”, e pertanto alle 9,30 rientrò tornò al Viminale (a quel tempo sede del presidente del Consiglio) per annullare lo stato d’assedio e rassegnare le dimissioni. Per avere un parere sull’accaduto, Facta chiamò al Viminale gli on. Tittoni e De Nicola, con i quali ebbe un lungo colloquio. Il Consiglio dei ministri, innanzi alla nuova situazione autorizzò l’agenzia Stefani a diramare il comunicato che il provvedimento relativo allo stato di assedio, non avrebbe avuto più corso.
Poiché il comunicato in questione era stato diramato pochi minuti dopo mezzogiorno, in realtà la menzionata misura emergenziale non aveva avuto in alcun modo inizio. Si era considerata l’ipotesi di un ritorno di Giolitti, ma su di lui Don Sturzo pose il veto, essendo contrario alla partecipazione dei Fascisti a quel Governo. Nelle ore successive, il Re, che in un primo momento aveva considerato l’ipotesi di un gabinetto Salandra, con Mussolini all’Interno, innanzi al netto rifiuto di quest’ultimo decise di conferire a lui direttamente l’incarico di presidente del Consiglio, ma l’interlocutore che evidentemente riteneva non sufficiente l’impegno ufficioso del sovrano, pretese che l’incarico gli venisse comunicato per iscritto. Il 29 ottobre il Popolo d’Italia, giornale fondato da Mussolini, titolava in prima pagina “Lo Stato che noi auspichiamo va traducendosi in fatto”, e proseguiva “Esultante solidarietà dell’Esercito regolare con la Milizia fascista. Mirabile fusione di tutte le forze nazionali”.
Il Corriere della Sera del 30 ottobre titolava “La crisi nazionale e l’incarico a Mussolini di formare il Governo”, evidenziando di aver propugnato in precedenza le dimissioni del Governo Facta, perché se ne costituisse uno nuovo inclusivo anche dei fascisti e che “avesse quindi la forza e l’autorità di contenere l’azione fascista in limiti legali. Non siamo stati ascoltati dai ciechi e dagli impotenti di Roma – proseguiva la dichiarazione – ed è accaduto quello che dopo l’adunata di Napoli si poteva prevedere. Impari prima, il Ministero Facta fu tanto più incapace poi di difendere la legge e la costituzione. Oggi siamo a questo, che l’Italia non ha governo di sorta e l’arbitrio è sovrano”. In quello stesso giorno alle 10.50 del mattino Mussolini arrivò a Roma in vagone letto da Milano. Convocato dal re, si presentò al Quirinale dove ricevette l’incarico di formare un Governo di coalizione, che pertanto non segnava ancora la nascita del Fascismo come regime monocratico nella forma, e dittatoriale nella sostanza. Ciò sarebbe avvenuto a far data dal discorso del 3 gennaio 1925, che costituì il dies a quo della dittatura vera e propria. Il 31 ottobre, con le dimissioni del governo Facta – definito dal Mola “il Romolo Augustolo del liberalismo italiano” – si ebbe il canto del cigno dell’Itala liberale.
Facta – è ancora il Mola a ricordarlo – non aveva preso ad esempio la lezione strategica di Giolitti, consistente nel tenere riunito il Governo in permanenza e nel portare la crisi in Parlamento, il quale ultimo si era riunito solo nella circostanza del voto di fiducia. È pur vero che da molti è stata storicamente attribuita al Facta la colpa di essersi dimostrato debole, dopo che un’intera classe politica si era in realtà defilata dall’onere di assumere responsabilità decisionali, lasciandolo così lui solo con il “cerino in mano”. Il 25 novembre la Camera conferì i pieni poteri a Mussolini, e quattro giorni dopo il relativo decreto fu approvato anche dal Senato, con il che il Parlamento, seppure nell’ottica di ottenere il ristabilimento dell’ordine nel Paese, da parte di un incendiario che ora si presentava come pompiere, si rese compartecipe dell’agonia cui sarebbe andato incontro lo Stato liberale. Il 18 settembre 1924 il sovrano, su proposta del presidente del Consiglio Mussolini, conferì a Facta la nomina a senatore del Regno, con cui si concluse il cursus Honorum di un galantuomo mite ed umile, fino al punto di essersi definito “giolittiano dalla personalità sbiadita”.
di Tito Lucrezio Rizzo