Il Pli compie cento anni, ma il futuro del liberalismo è ancora da scrivere

martedì 11 ottobre 2022


Sabato scorso, 8 ottobre, nella meravigliosa Bologna si è tenuto un convegno per commemorare i cento anni della fondazione del Partito liberale italiano. L’evento, che ha avuto luogo presso il centralissimo Grand Hotel Majestic “già Baglioni”, è stato fortemente voluto dalla Scuola di Liberalismo, storica organizzazione romana presieduta da Enrico Morbelli, una delle realtà più vitali in quel complesso e articolato panorama che è quello del liberalismo italiano, che da oltre trent’anni contribuisce instancabilmente alla diffusione – e quindi alla perpetuazione – del pensiero liberale. Sponsor della convention il Centro Einaudi di Torino, Open Gate Italia, la Fondazione Competere di Roma e il Matera Liberal Forum.

Si è scelto di dare all’evento la forma di un congresso accademico, durante il quale i relatori – accademici come Giovanni Orsina, Franco Chiarenza, Gerardo Nicolosi, Fulvio Cammarano, Paolo Carusi e Antonio Scornajenghi – hanno avuto la possibilità di intervenire, esponendo magistralmente la storia del Partito liberale italiano dalle origini fino al suo scioglimento con l’avvento del fascismo e alla sua ricostituzione nel 1943, oltre che di formulare più di qualche acuta riflessione sul presente e sul futuro del liberalismo italiano.

Sebbene i liberali furono tra i protagonisti dell’unificazione nazionale e della vita politica del neonato Regno d’Italia, il liberalismo italiano scontò sempre le divisioni interne, le differenze in termini ideologici e le diverse scelte di campo da parte dei singoli esponenti. Era presente una corrente più “conservatrice”, che riconosceva nella tradizione cavouriana la “bussola” da seguire, e una componente decisamente più progressista e innovatrice facente capo a Giovanni Giolitti; una corrente che si avvicinò al nazionalismo e all’interventismo – prima in occasione delle spedizioni coloniali italiane in Africa e successivamente con lo scoppio della Prima guerra mondiale – e un’altra che invece si riconosceva maggiormente nel neutralismo. L’irruzione dei partiti di massa socialisti e popolari sulla scena politica italiana a partire dal 1919, pose i liberali – che fino ad allora avevano seguito la prassi del “notabilato” locale e del comitato elettorale in un contesto di suffragio maschile e censitario – dinanzi alla necessità di dotarsi a loro volta di una struttura organizzativa più stabile e capace di continuare a essere competitiva.

Fu così che l’8 ottobre del 1922 a Bologna – soltanto venti giorni prima della Marcia su Roma – nacque il Partito liberale italiano, il cui scopo era chiaramente quello di riunire e compattare le varie “anime” presenti in quel mondo. L’avvento del fascismo pose i liberali di fronte all’ennesima difficoltà: collaborare col nascente regime mussoliniano od opporvisi? Molti scelsero la prima opzione, in alcuni casi decidendo addirittura di entrare nel “listone” di Benito Mussolini. Altri adottarono la strategia della neutralità – non approvo e non riprovo – nei riguardi del fascismo. L’idea comune – espressa peraltro anche da Benedetto Croce – era che il fascismo fosse un fenomeno passeggero, temporaneo, ma necessario in quel momento per ristabilire l’ordine in un Paese minacciato dall’avanzata del socialismo e vicino al caos.

Nel 1924, quando iniziò la vera e propria dittatura e quando il fascismo mostrò il suo vero volto, quello violento, autoritario e profondamente illiberale, che raggiunse il parossismo col delitto Matteotti, molti liberali si resero conto di quale grande errore avevano commesso. La maggior parte di loro sposarono la causa dell’antifascismo: dapprima solo dal punto di vista intellettuale – con Luigi Einaudi e Benedetto Croce a fare da traino – e partecipando successivamente alla Resistenza e alle attività del Comitato di Liberazione Nazionale, tra le fila dei cosiddetti “partigiani bianchi”, che pur perseguendo la liberazione dell’Italia dall’occupazione nazista e dalla tirannia fascista, non si riconoscevano nel social-comunismo. A questo proposito, vale la pena ricordare i partigiani come Edgardo Sogno, medaglia d’oro della Resistenza e capo dell’Organizzazione Franchi, che rappresentava i liberali in seno al Comitato di liberazione nazionale dell’Italia settentrionale.

Fu proprio durante la Seconda guerra mondiale che il Partito liberale, sciolto assieme a tutte le altre organizzazioni non fasciste nel 1924, venne ricostituito proprio su iniziativa di Einaudi e Croce, oltre che di grandi intellettuali del tempo come Nicolò Carandini o Mario Pannunzio e di esponenti storici del liberalismo italiano come Vittorio Emanuele Orlando. All’Assemblea Costituente i liberali – riunitisi nell’Unione democratica nazionale, assieme al Partito democratico del lavoro – contribuirono in maniera significativa alla stesura della Costituzione della neonata Repubblica Italiana, non meno dei cattolici o dei comunisti. Liberali furono anche i primi due presidenti della Repubblica: Enrico De Nicola e lo stesso Luigi Einaudi. Tuttavia, tale rilevanza politica si ridusse progressivamente durante la Prima Repubblica, fino a scomparire – proprio come tutti gli altri partiti che avevano caratterizzato questa fase della storia politica italiana.

Quale futuro, dunque, per il liberalismo italiano? Si tratta di una domanda che non può trovare una risposta univoca. A distanza di cento anni i liberali continuano a essere divisi su cosa voglia dire essere autenticamente tali e sulle relative implicazioni pratiche. In un tempo in cui più o meno tutti, a vario titolo, si definiscono “liberali” (proprio come un tempo tutti si definivano “democratici”) più che mai il termine “liberale” rischia di perdere il suo significato e di diventare una sorta di “etichetta” buona per tutte le stagioni. Questo, tuttavia, non vuol dire che non ci sia speranza o che il liberalismo sia condannato a restare “lettera morta” o semplice cimelio da onorare, da riverire, da tenere in debita considerazione, ma inesorabilmente destinato a rivestirsi di polvere sugli “scaffali della storia”.

A giudizio di chi scrive, oggi più che mai le iniziative come il congresso di Bologna, assieme alle attività di organizzazioni come la Scuola di Liberalismo o di quelle che hanno sponsorizzato l’evento, sono di vitale importanza, perché hanno lo scopo di formare le “nuove leve” del liberalismo italiano, di continuare a esserne la linfa vitale e di testimoniare il fatto che esso è vivo e vegeto, riesce ancora ad appassionare e a coinvolgere e ha ancora una sua ragion d’essere, una sua missione.

La sfida odierna, forse, non è più quella di rifondare una sigla capace di riunire e mettere d’accordo i liberali italiani su cosa sia il liberalismo e su cosa voglia dire, concretamente, essere liberali. Forse la grande sfida del nostro tempo è tenere viva una tradizione e darle continuità, plasmando una “nuova guardia” che, in nome della sua fede nella libertà, declinata in tutte le sue forme, sappia andare oltre le rispettive appartenenze politico–ideologiche, prescindere da esse, dando vita a una rete liberale “transpolitica”. Anzitutto liberali: questo potrebbe essere il tema di un futuro convegno.


di Gabriele Minotti