Giorgia Meloni vista dall’estero

mercoledì 5 ottobre 2022


Chi è senza peccato… Praticamente, nessuno dei grandi quotidiani anglofrancesi, come Le Figaro, Le Monde, Financial Times, New York Times, Washington Post, The Times (per non parlane di The Guardian e di tutti i grandi quotidiani spagnoli di centrosinistra) riesce nel miracolo di non citare mai le presupposte radicifasciste” del partito di Giorgia Meloni, che ha ottenuto il successo alle recenti elezioni del 25 settembre. Data fatidica che, a questo punto, qualcuno scambierà con la riedizione del 27 ottobre del 1922, giorno della Marcia su Roma.

Iniziamo con la stampa parigina. Frédéric Le Moal, storico francese del fascismo (di cui si menzionano alcune sue pubblicazioni, quali “Vittorio Emanuele III. Un Re di fronte a Mussolini”; “Storia del Fascismo”), intervistato da Le Figaro, legge luci e ombre nell’avvento del “melonismo”, che ritiene in grado di poter dare una scossa all’Italia e all’Unione europea sull’immigrazione e sui valori cristiani (con particolare riguardo alla difesa della famiglia tradizionale), rispettando al contempo le alleanze internazionali. Anche se la Meloni dovrà farsi perdonare il suo sostegno (fino al 2018) a Vladimir Putin e Bashar al-Assad, difensori della cristianità in Medio Oriente. Quindi, con ogni probabilità, malgrado i suoi scomodi alleati, il nuovo Governo a guida Meloni terrà fede al mantenimento delle sanzioni contro la Russia e all’invio di armi all’Ucraina, per allinearsi alla grande tradizione atlantista della destra italiana. Anche in tema di economia e di Pnrr c’è da ritenere che non ci sarà nessun cambio di direzione rispetto alle scelte politiche di Mario Draghi.

Lungimirante, per quanto riguarda i futuri rapporti della Meloni con Joe Biden, si è dimostrata nel 2021 la rottura dei suoi pregressi rapporti con Steve Bannon, dopo l’irruzione in Campidoglio dei sostenitori di Donald Trump. Da lì in poi, la leader di Fratelli d’Italia ha cambiato le sue alleanze e si è avvicinata all'ala più ortodossa della destra repubblicana, avendo capito che il populismo americano si sarebbe rivelato perdente. Tutti sono certi, sempre assecondando il pensiero di Le Moal, che la Meloni non aprirà mai una crisi vera con Bruxelles, anche se continuerà a difendere il principio dell’Europa delle Patrie e delle radici cristiane, dando così molto più spazio alle questioni identitarie, senza mai però sfociare nell’antieuropeismo. Con un debito pubblico al di sopra del 150 per cento e 140 miliardi che debbono ancora essere versati all’Italia dai fondi del Recovery, la Meloni sa bene dov’è che si orientano gli interessi dell’Italia, preferendo sempre e comunque proporre anziché imporre, perché l’Italia è una grande democrazia per la quale l’Europa ha sempre rappresentato il corso della sua storia. Quindi, è da dare per scontato che la Meloni, al contrario di Viktor Mihály Orbán, disputerà il gioco con le istituzioni di Bruxelles, mentre la Libia (anche a causa dell’attuale pressione migratoria sulle coste italiane) costituirà una delle priorità nella sua agenda internazionale. A questo punto Le Moal si pone la domanda cruciale: ma la Meloni è o no “post-fascista”?

Secondo lo storico francese, questo è solo un marchio infamante che tende a ricondurre il suo partito al fascismo, quando invece l’evidenza delle scelte politiche di FdI dimostra il contrario. Coloro che rimproverano a Meloni la sua militanza nel Fronte della Gioventù del Movimento Sociale Italiano, dimenticano di essere altrettanto zelanti quando si tratta di denunciare il passato trotskista o maoista di esponenti di punta della sinistra italiana. Nel suo percorso politico, Meloni si è progressivamente distaccata dalle radici tardo fasciste di Alleanza Nazionale, in cui pure aveva militato, creando un suo nuovo partito conservatore moderno ed epurando progressivamente tutti gli elementi di destra estrema e nostalgici del fascismo, cosa che oggi impedisce qualsiasi parallelismo tra melonismo e regime mussoliniano, per cui la Meloni non è post-fascista ma, semmai, conservatrice, sovranista e patriota. La leader di FdI è liberale in economia (e, quindi, contraria a ogni forma di statalismo), cattolica dichiarata con una visione conservatrice della società, conducendo una battaglia identitaria di tipo difensivo e in prevalenza non aggressivo. Pertanto, il suo programma non ha nulla in comune con il fascismo che, ricordiamolo, essendo un’ideologia statalista, univa socialismo e nazionalismo di stampo totalitario, portatore di un progetto di rivoluzione antropologica, che voleva ricreare un italiano nuovo, esaltando la guerra e la violenza, atto fondatore di un nuovo popolo italiano duro e crudele, perché ormai libero dal fardello di quei valori senza spina dorsale propri del cristianesimo. Perché, ci dice Le Moal, il fascismo fu una risposta data attraverso la violenza fisica ed extraparlamentare, rivoluzionaria, anti-comunista e anti-liberale, alla crisi che tormentava la società italiana nel primo dopoguerra. La vittoria di FdI, invece, si inquadra in una scelta conservatrice all’interno di un quadro democratico, che intende dare soluzioni sia alla crisi di una mondializzazione distruttrice delle identità nazionali, sia alle sfide di un'immigrazione incontrollata.

Molto diverso da Le Moal è l’atteggiamento di Marc Lazar su Le Monde, nel suo “Che fine farà fare Georgia Meloni alla Democrazia italiana?”, anche se la sua analisi politica presenta aspetti di indubbio interesse. Si parte dalla constatazione storica per cui, scomparsi con la dissoluzione della Cortina di Ferro i Partiti-Chiesa, ideologici e di massa (comunisti, socialisti, democristiani che si caratterizzavano per la loro rappresentanza trasversale all’interno delle varie classi sociali italiane), fin dal 1994 è prevalsa l’alternanza e, ogni volta, gli elettori – avendo le mani libere – hanno scelto il “nuovo”. Allora fu Forza Italia, poi venne il turno di Romano Prodi e, più di recente, quello dei Cinque Stelle antisistema e successivamente diventati essi stessi sistema, riconoscendosi in ben tre governi diversi e aderendo ad altrettante alleanze eterogenee. Infine, oggi è la volta di Fratelli d’Italia di Georgia Meloni che, però, proprio nuovissimo come Partito non è, risalendo le sue radici al Movimento Sociale neofascista, nato nel 1946. Ma Meloni non intende soltanto accedere al potere, volendo rappresentare lei stessa l’alternativa che intende offrire una soluzione al disincanto e alla disaffezione degli elettori italiani verso la politica, e porre così rimedio all’attuale malcontento sociale. Con le ultime elezioni, FdI è divenuto un partito presente a livello nazionale – non più confinato al Sud – che si è affermato addirittura come primo partito al Nord, a spese sia della Lega salviniana sia della berlusconiana e rediviva Forza Italia.

Abbandonando la sua natura politica originaria prettamente statalista, FdI ha scelto una dimensione liberista in economia, con meno tasse per chi lavora e produce e un’adeguata assistenza sociale per chi veramente non ce la fa. Il suo programma è fortemente critico nei confronti dell’immigrazione, dell’Islam, dell’insicurezza e delle élite. La sua vera forza è quella di declinare – in base allo schema Dio, Patria e Famiglia – il tema dell’identità nazionale, vera questione storica fondamentale quest’ultima, mai risolta a partire dall’Unità d’Italia. Da questi assunti deriva la contrarietà di FdI allo ius soli a favore dello ius sanguinis. Così Meloni ha promesso di difendere con le unghie e con i denti gli interessi nazionali e l’orgoglio di sentirsi italiani. È evidente come i suoi interlocutori siano tutti coloro che si dicono euroscettici, preoccupati dal declino demografico dell’Italia e dai cambiamenti in atto nella sua composizione demografica, da cui deriva la denuncia dei rischi di “sostituzione etnica”, con 5 milioni di immigrati regolari e una forte immigrazione irregolare, alla quale gli sbarchi di clandestini danno un contributo non secondario. Da questo punto di vista, discende il rifiuto delle famiglie omogenitoriali, del movimento Lgbt, delle teorie gender e la reticenza ad avallare la legge sull’interruzione di gravidanza, contemperando quest’ultima con il diritto a non abortire.

Per conoscere quali saranno le scelte di Meloni, occorre attendere la formazione del suo primo Governo in assoluto. Nel futuro, nei suoi indirizzi politici la leader di FdI si ispirerà, o no, a Orbán e Trump? Appoggerà l’Ungheria e la Polonia contro le sanzioni Ue? Farà o no il blocco navale per fermare i barconi? In che senso dovrà andare la riforma costituzionale per il presidenzialismo? Quale dovrà essere una Balance-of-Power costituzionale più equilibrata? Malgrado le apparenze, la democrazia italiana è forte, essendosi messa alle spalle sovranisti, populisti ed estremismi vari.

Sempre su Le Monde, Gilles Gressani nel suo “La Meloni non incarna il ritorno al fascismo”, osserva come l’Italia rappresenti un sensore che capta in anticipo i cambiamenti in profondità delle politiche europee. Quel che è certo, rileva, è che Meloni non è stata votata perché nostalgica del regime fascista: a cento anni dalla Marcia su Roma, la Storia non si riproporrà né come farsa, né come tragedia. Piuttosto, per definire il melonismo si può utilizzare il neologismo di tecnosovranismo, sintesi tra l’integrazione delle logiche tecnocratiche, associata sia con l’accettazione del quadro geopolitico dell’Alleanza Atlantica e della sua dimensione europea, sia con l’insistenza sui valori del conservatorismo e delle istanze nazionalistiche. Paradossalmente, malgrado la sua opposizione solitaria a Mario Draghi, Meloni ha allineato il suo partito con le politiche europee di sostegno all’Ucraina, prendendo decisamente le distanze dal filo-putinismo di Matteo Salvini e Silvio Berlusconi.

Resta tutta da verificare la natura di un simile cambiamento, che potrebbe rivelarsi solo una mossa tattica e perciò ambigua, favorita al massimo dal fatto che Meloni non ha dovuto ricorrere a una campagna elettorale di rottura all’interno, dato il grande vantaggio di cui godeva nei sondaggi, potendo così dedicarsi alla cura degli aspetti internazionali. Quanto tutto ciò rilevi del contenuto e non dell’apparenza lo si scoprirà, molto presto, con la presentazione della lista dei ministri del suo Governo. L’insuccesso eclatante di Italexit, escluso dal Parlamento, ha convinto Meloni di essersi mossa con il piede giusto, cancellando l’argomento dell’uscita dall’Euro dalla sua campagna elettorale, per fare suo il concetto della moneta unica come potente strumento di coesione delle politiche europee, anche grazie al collante e all’autorevole intermediazione di Mario Draghi, destinato per il futuro, d’accordo con Sergio Mattarella, a svolgere un ruolo di Eminenza Grigia, una sorta di Richelieu, per consigliare Meloni e aprirle discretamente tutti gli spazi che contano a livello delle più importanti Cancellerie occidentali.

Questa è una dinamica non proprio sconosciuta, dato che la destra europea insiste da anni sulla retorica per ricompattarsi e ridefinirsi all’interno di un progetto di civiltà valoriale, in cui si colloca l’idea di Orbán di un’Europa “bianca e cristiana” in grado di aggregarsi in una sorta di internazionale neo-nazionalista per ribaltare gli attuali rapporti di forza e imporre una Europa delle Nazioni. Ma, con l’invasione dell’Ucraina e la guerra in Europa tutto è cambiato, rispetto alla grande solidarietà del 2019 per la lotta comune contro la pandemia. Infatti, a livello della rappresentazione, il conflitto in atto, provocando il “risveglio geopolitico dell'Europa”, ha contribuito rispetto al passato alla “territorializzazione” di una costruzione europea, che finora si era resa protagonista solo in termini geograficamente astratti, quali mercati, consumatori, imprese. Con il ritorno di un conflitto a caldo, l’Unione e i suoi Paesi membri stanno attraversando un momento “schmittiano” caratterizzato dall’apparizione brutale di un “nemico comune”, che si mostra al massimo della sua intensità politica attraverso una guerra che intende rimettere in discussione il processo di costruzione di una Nazione, come quella dell’Ucraina. Questa politicizzazione trasforma radicalmente l’aspetto tecnocratico (che talvolta rasenta l’impolitico!) della costruzione europea, dando un vantaggio potenziale alle forme neo-nazionaliste. Ed è esattamente assecondando questa sequenza che un’ipotesi tecno-sovranista, coerente con questo nuovo ordine continentale, potrebbe affermarsi in Italia.

Ciò, tuttavia, implica la rinuncia di Meloni a condividere le posizioni illiberali del neo-nazionalismo alla Orbán. Questo drastico cambio di rotta in senso conservatore e liberale avrebbe un impatto positivo e immediato sulla credibilità di un Governo a guida FdI. Ed è proprio per questo motivo che le forze progressiste europee sono chiamate a dare una risposta strutturale, che elabori un nuovo assetto organizzativo del Continente. Ipotesi interessante, indubbiamente.


di Maurizio Guaitoli