Allarme controriforma: la giustizia tributaria torna domestica?

mercoledì 15 giugno 2022


Tra pandemia e guerra sta passando sotto silenzio una riforma fiscale nell’ambito del Pnrr che sarà devastante per i contribuenti. Non si tratta di una nuova imposta ma di qualcosa di più subdolo: un nuovo giudice tributario reclutato direttamente dal Mef, da cui dipenderà quindi non più solo economicamente – come purtroppo già oggi avviene – ma anche formalmente, con buona pace della terzietà. Il tutto è contenuto in un Ddl governativo attualmente in discussione al Senato (numero 2636 del primo giugno 2022) che sembra scritto da chi non conosce la materia e che, in sostanza, vorrebbe mandare a casa molti degli attuali giudici tributari, penalizzandone il resto, con modalità che mettono concretamente a rischio l’imparzialità del giudice e i diritti dei contribuenti ad un giusto e rapido processo.

Ma andiamo con ordine. Nel complesso “l’intervento persegue la razionalizzazione del sistema della giustizia tributaria attraverso la professionalizzazione del giudice di merito, con la previsione della figura del magistrato tributario professionale, e apporta le conseguenti, necessarie modifiche alle norme che disciplinano il reclutamento, la nomina alle funzioni direttive e le progressioni in carriera dei componenti delle commissioni tributarie”.

Gli obiettivi della riforma sono essenzialmente i seguenti: 1) creare una magistratura tributaria a tempo pieno, equiparata alle altre anche per ingresso mediante concorso pubblico per titoli ed esami; 2) ridurre il carico di ricorsi tributari pendenti in Cassazione (circa 50mila); 3) costituire una vera Sezione tributaria della Cassazione, con dotazione di organico; 4) introdurre alcune modifiche al rito tributario (esempio, rinvio pregiudiziale). Si sa che le vie dell’inferno sono lastricate di buoni propositi, e il caso in discorso non fa eccezione: chi non vorrebbe una magistratura specializzata e a tempo pieno per migliorare il servizio? Ma si è data una priorità sbagliata: tra le varie giustizie in Italia, quella tributaria è certamente quella più in salute; i giudici tributari di merito sono i più rapidi, i ricorsi arrivano a sentenza in media in due anni per il primo grado e in tre anni per il secondo; il ritardo maggiore si crea in Cassazione, dove si arriva a cinque anni, nonostante si tratti di magistrati di ruolo. Un segnale per chi è fissato con i togati.

Il Ddl è infatti chiaramente influenzato da un certo pregiudizio negativo corporativo verso l’attuale giudice tributario di merito, una figura peculiare di giudice collegiale, costituito non da soli magistrati di carriera, ma anche da professionisti (in massima parte avvocati e commercialisti). Tutti nominati previo superamento di concorso pubblico per soli titoli. Questo ricco mix di competenze è in realtà la vera forza delle attuali Commissioni tributarie. Si tratta di una formula apprezzata anche in Europa, che evidentemente qualcuno vuole smantellare per la sua reale efficacia nel contrastare gli abusi dell’erario. Certo, dire che in Italia ci sono 19 milioni di evasori – come ha fatto recentemente il direttore dell’Agenzia delle entrate – e verificare poi che questi dati si rivelano di pura fantasia in sede di giudizio può dar fastidio a un fisco che abbia solo interesse a far cassa. Il giudice tributario di merito è quindi diventato un capro espiatorio. Ma è davvero il colmo, perché nonostante sia part-time e sottopagato (viene remunerato con “ben” 26 euro a sentenza, per cause spesso di considerevole importo) non ha diritto al rimborso delle spese di trasferta neppure per andare in udienza, magari da un’altra Regione di residenza.

Comunque sia, si arriverà a una magistratura tributaria a tempo pieno. Bene. Ma in che termini e con quale destino per gli attuali giudici? Qui si vede tutto il semplicismo e il pregiudizio corporativo che concorre all’ispirazione di questa controriforma pro-fisco. Si fa rivivere un dualismo tra togati e non togati che nelle attuali Commissioni tributarie si era stemperato da tempo, prevedendo che solo i primi possano transitare – peraltro a certe discutibili condizioni – nella nuova magistratura, e che i non togati non possano aspirare a funzioni direttive (presidenti di Commissione o di Sezione). Si mantengono in organico tutti i giudici tributari iscritti al primo gennaio 2022 nell’apposito ruolo esistente; ma non si comprende bene con quali prospettive. Anche perché è stato inserito un effetto tagliola a partire dal 31 dicembre 2022, consistente nella decadenza dall’incarico a 70 anni, e non più a 75 anni, come oggi. Una scelta folle.

Mandare a casa tutti i giudici alla soglia dei 70 anni comporterebbe non solo una dispersione di professionalità, ma anche una scopertura drammatica di organico, che porterebbe alla paralisi del servizio. È stato infatti calcolato che dal primo gennaio 2023 verrebbero a mancare 656 giudici, di cui 30 presidenti di Commissione, 110 presidenti di Sezione, 139 vicepresidenti e 377 giudici. È necessaria una moratoria. Peraltro, i ricorsi contro il provvedimento fioccherebbero, con caos ulteriore: un licenziamento in tronco senza alcuna tutela assistenziale e previdenziale e neppure una indennità perequativa, per la perdita di cinque anni di attività, sarebbe in netto contrasto con le pronunce della Corte di giustizia europea. Così come è folle pensare che i 576 neo-magistrati tributari, il nuovo organico previsto, possano essere in grado di definire un contenzioso stimato intorno ai 215mila ricorsi, emettendo quindi 374 sentenze l’anno ciascuno; se arrivassero alla media di 250 sentenze l’anno sarebbe già un successo.

Ma tutta la tempistica prevista per il nuovo reclutamento è sconclusionata, perché esageratamente ottimistica. Per svolgere l’ultimo concorso per soli titoli del 2016 (14 mila domande) ci sono voluti più di tre anni; perché i nuovi concorsi per titoli ed esami si esauriscano, tra bandi e decreti di nomina – e non ultimo, adeguato tirocinio, trattandosi di regola di soggetti privi di esperienza nella materia tributaria – passeranno quindi anni. E nel frattempo? Perché non si è valutata l’alternativa – formulata anche da chi scrive in un appello ai ministri della Giustizia e Ecofin – di valorizzare intanto l’organico esistente, a partire da una remunerazione consona alla funzione, magari chiedendo di optare per il full time fino alla scadenza naturale del mandato a 75 anni? Non sarebbe una buona cosa se gli attuali giudici arrivassero a scadenza naturale facendo da mentori dei nuovi, e si uniformasse per tutti il trattamento economico e lo status?

Con la buona volontà le soluzioni si possono trovare. Ma esiste? È quanto verificheremo al VII Congresso dell’Associazione nazionale magistrati tributari, dedicato appunto alla “Giustizia tributaria verso la riforma” – ma anche ad altri temi, tra i quali il contributo dell’intelligenza artificiale e predittiva nello sviluppo degli orientamenti giurisprudenziali – che si svolgerà a Modena dal 17 al 19 giugno, attraverso il confronto di relatori provenienti dal mondo politico, accademico e delle professioni giuridiche.

(*) Giudice tributario, avvocato e dottore commercialista


di Luca Maria Blasi (*)