martedì 31 maggio 2022
Il pensiero è ormai ridotto a un Tweet vocale
Non so se ricordate le interviste rilasciate qualche anno fa da Gianfranco Fini o da Francesco Rutelli quando i due e molti altri loro colleghi, per la verità, rispondevano con frasi pronunciate lentamente, parola per parola staccate da piccole pause, quasi a prendere tempo, e che in fondo suggerivano l’idea di un non sapere cosa dire. Era uno degli effetti dei costosi consigli degli scienziati della comunicazione, ancor oggi più numerosi di medici e infermieri messi insieme, ai personaggi pubblici. L’applicazione più sgradevole di questi fu durante le elezioni 2006 quando i candidati della sinistra nei dibattiti avevano regolarmente un sorrisino di compassione e di tenerezza, ben studiato, nei confronti delle parole espresse dai candidati degli altri partiti. Sarebbe anche troppo fastidioso ricordare questa mancanza di rispetto personale e politico e quindi mi fermo qui. Comunque, questo slow bla bla che in genere serviva a far sembrare importanti qualche luogo comune e le tante varie banalità era nato dalle mitizzate e mitologiche scuole americane, anzi dalla lettura che i nostri dotti ruspanti sapienti avevano dato sul loro lavoro.
Non so se avete mai sentito in originale i discorsi del presidente John Fitzgerald Kennedy o di altri universitari degli anni Sessanta dove i ritmi sono rapidi e non c’è modo di far rispettare loro la punteggiatura. Ovviamente per un ispanico o per un italo-americano la comprensione risultava piuttosto difficoltosa. Per contro, Martin Luther King aveva una dizione limpida e puntuale tanto è vero che “I have a dream” fu colto e capito da tutti, anche da chi parlava solo gli slang degli afroamericani, e ancor oggi ricordiamo quella frase e il suo significato. Per gli statunitensi scandire le parole e farle comprendere era un fatto basilare. Da qui era nata la convinzione legittima che un ritmo più lento avrebbe dato migliori risultati, cosa che in Italia non era assolutamente necessaria. Anche oggi, Joe Biden e soprattutto Donald Trump utilizzano uno stile più elaborato, ma comprensibile, che inserisce pause tra concetti e immagini, non tra parola e parola. Un esempio: “L’America / deve essere libera / gli americani / devono essere liberi”. Questo modo però rimanda ai maestri della Prima Repubblica, primo fra tutti Bettino Craxi, che aggiungevano nell’insieme anche l’importanza e l’alto livello di un ruolo istituzionale eventualmente ricoperto al momento del discorso.
Non so poi se invece avete sentito la serie di brevi dichiarazioni che vanno di moda oggi. Una cinquantina di parole mandate a memoria (o con il tablet tenuto sotto la telecamera) dove i termini ricorrenti sono “i giovani”, “le donne”, “il lavoro”, “inclusione”, “cittadine”, “cittadini”. Ben poco spazio resta alla completezza di un ragionamento, alla profondità di una visione politica, al tentativo di argomentare una posizione su un determinato tema. Non so se sia ancora sopportabile il fatto che di fronte a una pandemia, a una guerra alle porte di casa, ai costi dell’energia che hanno superato ogni soglia prevedibile, a un futuro che non ci garantisce di avere materie prime e nemmeno grano e cereali, che tutto sia riducibile e riconducibile a un semplice elenco, vecchio e trito, di slogan elementari. Sicuramente gli innumerevoli esperti e consulenti della comunicazione avranno altri assi nella manica da farsi lautamente compensare.
Non so davvero se un giorno vedremo gli italiani uscire dal silenzio del non voto e della scheda nulla per tornare a pretendere una scuola che insegni ai nostri figli a scrivere in modo almeno corretto e dignitoso, a esigere una sanità pubblica che non ci costringa ad avere un’assicurazione sanitaria per avere delle prestazioni in tempi rapidi, oppure, al momento di votare a chiedere di poter scegliere tra diverse visioni di gestione reale del Paese e non tra personaggi più o meno noti o leader di partito che ancora parlano lentamente perché non hanno argomenti o si permettono di sogghignare teatralmente ai concetti di un rivale politico. Ho provato a chiedere proprio ai politici e ai grandi dell’immagine se si è in grado di lavorare a un cambiamento serio del mondo italiano ma la risposta è stata sempre categorica e disimpegnativa per tutti: “Non so”.
di Quintino Di Marco