venerdì 15 aprile 2022
Alla prova della Croce. Per l’ultima stazione della Via Crucis pasquale, quella della deposizione del Corpo di Cristo restituito alla Madre, Papa Francesco ha fatto quello che il Vangelo e tutta la teologia apostolica romana insegnano: perdono e riconciliazione. E ha scelto di affidare il compito di portare il simbolo della passione a due donne, una russa e l’altra ucraina. Un messaggio per il mondo, un esempio per i belligeranti, una speranza per chi soffre. È il nostro credo, la nostra fede, quella che in secoli di concili, teologie, lotte e sacrifici ha scavalcato la violenza e l’odio per risorgere nella purezza del principio: l’amore oltre ogni ostacolo.
Non è solo il Cristianesimo, questo è anche il patrimonio italiano e l’unicità di quell’Europa cattolica che spesso dimentichiamo e calpestiamo nella folle corsa dei diritti, delle libertà, delle indipendenze. La forza della nostra bandiera e dell’Unione europea sta proprio in questo messaggio distintivo della fratellanza, suggellata da infinite dispute e contese e soprattutto dopo l’abisso della Seconda guerra mondiale. Dopo le aberrazioni della persecuzione e dei milioni di morti da ogni parte non vi può essere altra scelta che il deporre le armi, come Gesù ordinò nell’Orto di Getsemani ai suoi discepoli, a Pietro fondatore e a chiunque intendesse il riscatto con il sangue. La Santa Alleanza che si celebra nella Pasqua è questa, il patto contro ogni sollevazione, allontanare l’idea del nemico, rinunciare all’odio, alla rivalità, anche alla giusta causa, per professare un solo dovere e un solo principio: “Fare questo”. Tra le tante opzioni per un gesto sacro, i colloqui di pace, la pressione politica, il dialogo interreligioso, Papa Francesco ha scelto “questo fare”. Il Pontefice ha affidato la Croce della Deposizione ad Albina e Irina.
Albina è una specializzanda russa e Irina è un’infermiera ucraina, entrambe lavorano presso il Bio Campus Medico di Roma. “Quando ci siamo incontrate poco dopo l’inizio della guerra, Albina è venuta nel reparto”, racconta la specializzanda. “Io ero di turno. È bastato il nostro sguardo: i nostri occhi si sono riempiti di lacrime e Albina ha cominciato a chiedermi scusa. Si sentiva in colpa e mi chiedeva scusa. Io la rassicuravo che lei non c’entrava niente in tutto questo”. Poi, di fronte all’investitura le due donne hanno diffuso un video in cui spiegano la loro posizione. Albina ha detto: “In questo momento molto difficile e vergognoso per l’umanità voglio dire che io sono russa e amo l’Ucraina. Hanno cercato di mettere contro i due Paesi”. Irina, invece, ha affermato: “La preoccupazione è grandissima. Il fatto che tutto il mondo stia mostrando solidarietà è toccante, mi resta solo la speranza che tutto finisca al più presto”.
La decisione, tuttavia, è stata fortemente criticata dall’ambasciata ucraina, che non ha gradito l’accostamento nella fase più critica del conflitto. Anche dal fronte russo l’idea non è stata presa bene. Forse a qualcuno le ragioni del “no” sembreranno condivisibili, parlare di riconciliazione mentre i due eserciti fanno stragi di vite e civili pare un atto scandaloso. Ma se dimentichiamo questa lezione rinunciamo a tutto il nostro unicum. E al distinguo elettivo del Cristianesimo romano interpretato dal Papa, in un Chiesa a cui non mancano ombre e questioni, che però alza “il vessillo della fratellanza nel dolore e nella discordia”. È questa la Croce a cui si affidò Cristo ed è questo che Egli morendo e implorando dimostrò nel sacrificio pasquale. Per gli uomini, per tutti gli uomini di tutti i tempi e storie: “Amarvi come io vi ho amato”.
Irina e Albina, nonostante le polemiche, segneranno questa Pasqua con la Croce della Via Crucis come Papa Francesco ha voluto. La Croce regge, ma la nostra anima, la nostra fede? Italia ed Europa capiranno che ciò che va difeso non sono solo i sacrosanti diritti degli invasi, le ragioni degli Stati, le prepotenze belliche, i confini, i missili, le alleanze atlantiche, la via del gas, la pace o il condizionatore, ma la volontà e la cultura di superare tutti gli odi. La scelta saggia che le dirigenze italiane e internazionali debbono fare è non scendere nelle diaspore, perché se vogliamo aiutare russi e ucraini – e tutti i belligeranti – dobbiamo allontanarli dalle loro discordie, dalle rivalse, promuovere il contatto e la resa, non la guerra.
Papa Francesco ha definito l’idea di finanziare gli eserciti “una pazzia” e ha invocato durissimo che “la guerra è un sacrilegio, basta alimentarla!”. Amare i popoli è diverso. Significa amare anche quelli lontani da noi, significa qualcosa di più della diplomazia, della negoziazione, degli scambi e interessi. Significa avere visione della correlazione virtuosa, non le sanzioni o la messa al bando. Significa avere dialoghi aperti, fondati sul bene dell’altro, sul valore perfino dell’avversario. Significa concedere a ciascuno il suo posto nella nostra gerarchia di relazioni. Stiamo facendo il contrario, scegliendo un campo, inviando armi, finanziando ordigni, mercenari e truppe di sanguinari in nome poi di una presunta “libertà” occidentale che suona come sfrenatezza e ingordigia. A questo siamo arrivati, a tradire “la Santa Alleanza”, a fare nell’orto di Getsemani sangue e morte. All’Italia e all’Europa che hanno smarrito il cuore e la mente va la speranza che sotto questo Cielo nero pasquale la Croce di Irina e di Albina sia accolta con pace, umiltà e misericordia.
di Donatella Papi