lunedì 14 marzo 2022
Antonio Martino, una delle voci più significative e importanti del liberalismo italiano di questi ultimi decenni, è scomparso lo scorso 5 marzo all’età di 79 anni. Lascia alla famiglia e a tutti noi un vuoto che difficilmente potrà essere colmato. Economista monetario, formatosi alla Scuola di Milton Friedman, amico e interlocutore dei più importanti economisti, pensatori e politici liberali del suo tempo, Martino “andò in cattedra” da giovane vincendo in concorso in tempi in cui contavano i “titoli”. Prima di diventare parlamentare e ministro, insegnò nelle Università di Messina, di Napoli, di Roma, alla Luiss e svolse questi compiti anche quando divenne presidente della Mont Pelerin Society (il secondo italiano dopo Bruno Leoni) continuando a scrivere su varie testate commentando con dottrina e arguzia gli avvenimenti del momento senza perdere mai di vista la loro dimensione universale.
Per certi versi si potrebbe dire che l’università e la politica le aveva nel sangue, ereditate dal padre Gaetano che fu tra gli artefici di quel Mercato comune sulla cui base si sviluppò l’attuale Ue che però a Martino non piaceva più di tanto perché, e non a torto, la considerava un’istituzione politico–burocratica di stampo “dirigistico”. Fu infatti un liberale a tutto tondo che nelle istituzioni, nelle quali operò egregiamente come deputato e come ministro, vedeva anzitutto uno strumento per difendere e per garantire quella libertà individuale che intendeva come premessa e condizione dell’aspirazione umana a migliorare la propria condizione, la propria conoscenza e per cercare di realizzare i propri valori tramite la libertà di scambio.
Sin dagli anni giovanili il proposito a cui si mantenne vigile e fermo negli anni della sua militanza (nel Partito liberale e in Forza Italia) fu quello di occuparsi di politica per cercare di ridurla. E con tale spirito intraprese – sovente in un avvilente isolamento – battaglie che talora perse, ma delle quali ogni liberale gli è grato. Riduttivamente definito come “liberista”, Martino fu in realtà – come recita il titolo di una delle ultime raccolte dei suoi saggi “scientifici” (Liberilibri, 2004) – semplicemente un liberale formatosi alla lezione di quei classici della tradizione che conosceva come pochi e dai quali, grazie alla sua prodigiosa memoria, riusciva sempre a trarre quella citazione e quell’aneddoto che ne illuminava il pensiero e lo spirito. Richiami che potevano essere compresi da tutti e utilizzati anche come il breviario per l’esercizio di un liberalismo quotidiano come recita un’antologia dei suoi scritti giornalistici (Liberilibri, 2008).
Martino possedeva infatti l’invidiabile dote di compendiare idee, narrazioni ed eventi che avevano il pregio di riassumere in una battuta (spesso ironica e quasi mai cattiva) quel che i suoi colleghi economisti, intellettuali e politici riuscivano, per bene che andasse, a sintetizzare in molte righe se non in noiose pagine. Anche per questo, di parlare con lui non ci si stancava; si imparava sempre e si finiva per essere in qualche misura rinfrancati. Furono queste doti di scienza e di incidenza argomentativa a consentirgli, agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso, di riesumare una tradizione liberale che in Italia viveva ormai soltanto in una ristretta cerchia di intellettuali e di rilanciare la speranza in una “rivoluzione liberale” e in un “liberalismo di massa” che potessero finalmente smuovere l’Italia da quella condizione di depressione causata da uno statalismo inefficiente. Non furono pochi quanti, allora, sperarono che Berlusconi avrebbe realizzato quel che Martino diceva. Le cose, purtroppo, non sono andate proprio così, ma non certamente per via dell’inadeguatezza delle sue analisi, idee e proposte.
(*) Senior fellow Ibl e presidente del Comitato editoriale Ibl Libri
di Raimondo Cubeddu (*)