martedì 1 febbraio 2022
Alla fine è stato rieletto per un secondo mandato Sergio Mattarella. Contrariamente alla convinzione dei più, che davano quasi per certo il prossimo trasferimento di Mario Draghi al Quirinale, è stato proprio il Presidente uscente a essere riconfermato.
Il teatrino al quale abbiamo assistito per tutta la scorsa settimana è stato qualcosa di semplicemente penoso. I primi quattro giorni sono passati tra schede bianche e nomi improbabili scritti da qualche perdigiorno, convinto di rendersi simpatico o di alleggerire un po’ l’atmosfera. E mentre loro si divertivano con poco, facevano vertici, si accordavano, tessevano alleanze e buttavano nomi a casaccio qua e là, gli italiani stavano a guardare il desolante spettacolo. Poi le riunioni notturne, le accuse reciproche, le prove di forza, i nomi dati in pasto ai media. Tutto questo per che cosa? Per rinnovare il mandato a Mattarella. Cambiare tutto perché nulla cambi, insomma.
Ci sono due vincitori e due sconfitti in questa partita. Il trionfatore è senza dubbio il centrosinistra, che ha caldeggiato sin da subito la rielezione del Capo dello Stato uscente e che, con astuzia e pazienza, è riuscito a fare in modo che, alla fine, si andasse a parare proprio in quella direzione, esacerbando l’atmosfera, arroccandosi sulle sue posizioni, non concedendo nulla agli avversari e portando tutti allo sfinimento finché non avessero ceduto. La tattica è sempre la stessa, ma ogni volta è sempre più raffinata. I veri “kingmaker” sono stati proprio i leader del “fronte progressista”: non tanto Giuseppe Conte – anche stavolta scalzato da Luigi Di Maio nella gestione dei gruppi parlamentari e nell’elaborazione di una strategia – quanto Enrico Letta e, soprattutto, Matteo Renzi. Il loro gioco è stato chiaro sin dall’inizio: lasciare che fosse il centrodestra a proporre dei nomi, scartarli sistematicamente uno a uno perché “divisivi” e fare in modo che restasse solo l’opzione Mattarella per sbloccare la situazione. In questo modo, se non altro, la sinistra si è “assicurata il pane”, almeno per il prossimo futuro e forse anche oltre.
Anche Mario Draghi esce vincitore da questa partita. Nonostante possa sembrare che l’attuale premier abbia subito un duro colpo alla sua credibilità, venendo sostanzialmente escluso dalla corsa per il Quirinale, lui che era dato tra i favoriti e che era stato acclamato dalle forze politiche come “salvatore della Patria”. In realtà, la rielezione di Sergio Mattarella va a consolidare non solo l’Esecutivo – di cui Mattarella è stato il principale garante e promotore – ma lo stesso “draghismo”, cioè l’emergente attitudine al pragmatismo politico, a mettere da parte ideologie e contrapposizioni per fare le cose che servono, che sono necessarie e che possono riscuotere ampio consenso mettendo tutti d’accordo. Senza contare, poi, che nulla vieta di supporre che l’ex banchiere centrale possa succedere (forse anche prima del 2029) a Sergio Mattarella. Anzi, è lecito immaginare che la “scalata al Colle” di Mario Draghi sia solo rimandata di qualche anno: forse neanche di sette.
Il grande sconfitto di queste elezioni è, invece, proprio il centrodestra, che ha gestito questa partita peccando di dabbenaggine e in maniera disordinata. Prima la candidatura ufficiale di Silvio Berlusconi, che però si è ritirato poche ore prima dell’inizio delle votazioni: a che scopo candidarsi per poi tirarsi indietro pochi giorni dopo, se non per ragioni legate al calcolo politico che, comunque, sarebbe stato bene fare prima, almeno per evitare simili balletti. Poi la famosa “rosa dei tre nomi”: Marcello Pera, Carlo Nordio e Letizia Moratti. Tre nomi di alto livello, senza dubbio: lo sbaglio è stato mostrare il proprio arsenale senza aver prima “tastato il terreno” (cioè senza essersi curati di garantire ad almeno uno di quei nomi una potenziale maggioranza). Dopo di questo è stata tentata la prova di forza: la “vittima sacrificale” è stata la presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati, silurata dai grandi elettori del suo stesso partito, Forza Italia e dai centristi, che ancora una volta si sono dimostrati del tutto inaffidabili e fin troppo inclini al compromesso con gli avversari.
A questo punto, colui che era stato incaricato di condurre le trattative per il centrodestra, il leader della Lega, Matteo Salvini, ha ritenuto necessario incontrare i capi del “fronte progressista”. Non si sa con certezza come siano andate le cose: Salvini sostiene si fosse trovato l’accordo sui nomi di Elisabetta Belloni, capo dei servizi segreti o di Marta Cartabia, attuale Guardasigilli, e che solo poche ore dopo la sinistra abbia ritrattato tutto. Ammettiamo che le cose siano andate proprio così: che motivo c’era di fare esattamente quello che le sinistre volevano sin dall’inizio, cioè optare per un Mattarella bis? Non si poteva tirarla ancora un po’ per le lunghe e proporre altri candidati? Che Salvini sia stato messo alle strette dagli alleati di Governo? Che sia intervenuto lo stesso Mario Draghi? Che Berlusconi ci abbia messo del suo, raccomandando di prendere posizione in favore di un Mattarella bis? Non è dato saperlo.
Bisognava uscire dallo stallo, dice il leader leghista: l’unico modo di farlo era di convergere su Mattarella. Quindi, se capisco bene, è un favore fatto agli italiani quello di non aver dato loro un Capo dello Stato? Perché è questo ciò che è avvenuto: con tutto il rispetto per Sergio Mattarella (al quale faccio comunque i miei auguri e porgo le mie felicitazioni) se la prassi costituzionale – violata già nel 2013 con la rielezione di Giorgio Napolitano – vuole che il Presidente della Repubblica non possa restare al Quirinale oltre il settennato, probabilmente una ragione ci sarà, ed è forse quella di evitare che lo stesso uomo possa godere di troppo prestigio e di troppo potere per troppo tempo: il che non è mai un bene in una democrazia. La domanda che echeggia è questa: perché anche stavolta che il centrodestra aveva la possibilità di esercitare un peso rilevante, non siamo riusciti a eleggere una figura un po’ più vicina al nostro schieramento o, perlomeno, una meno vicina alla sinistra?
Una sola cosa è certa: la coalizione di centrodestra ne esce spaccata. Giorgia Meloni è furibonda coi suoi alleati, che hanno gestito davvero male la partita e che, alla fine, si sono lasciati impastoiare dalla sinistra. Anzi, l’accusa della leader di Fratelli d’Italia è ancora più dirompente: i “grandi elettori” hanno barattato sette anni di presidenza con i sette mesi di legislatura rimanenti.
Matteo Salvini cerca in tutti i modi di giustificare le sue scelte: ma, in cuor suo, sa bene di aver deluso profondamente l’elettorato. Ora si parla di rifondare il centrodestra per condurlo alla vittoria alle elezioni del prossimo anno: ma, di questo passo, temo non si andrà molto lontano. Se non si riuscirà a fare il punto della situazione, a capire cosa vuole essere veramente il centrodestra, quali devono essere i suoi obiettivi, e se i leader non impareranno a fare gioco di squadra, il futuro della coalizione è davvero a rischio.
Il sospetto è che centristi, Forza Italia e Lega abbiano fatto prevalere la “ragion di Stato” a quella di coalizione, cioè che abbiano finito – magari per timore di ripercussioni sulla stabilità del Governo – per votare assieme agli altri azionisti di maggioranza. Se così fosse, allora si potrebbe pensare che queste siano state davvero le prove generali per la nascita di una specie di “maggioranza Ursula”, destinata a durare anche oltre il 2023, che escluda Fratelli d’Italia (sempre più isolato e a rischio di “lepenizzazione”, come si dice in questi giorni, vale a dire con parecchi consensi ma escluso dai giochi e condannato alla perpetua opposizione) e l’ultra-sinistra (e con questo mi riferisco ai vari Liberi e Uguali, Sinistra Italiana, Alternativa C’è e via discorrendo). Mi auguro con tutto il cuore di sbagliarmi, ma l’impressione avuta nelle ultime ore è proprio questa.
L’altro grande sconfitto è il sistema di elezione del Capo dello Stato. I tempi sono maturi per una riforma del Paese in senso presidenziale. L’assetto vigente non ha più ragion d’essere allo stato attuale delle cose. I cittadini hanno il diritto di scegliersi il Capo dello Stato (nonché garante della Costituzione e, quindi, dei loro diritti). L’auspicio – anche se inverosimile – è che si provveda a riformare il sistema in questo senso e che il successore di Mattarella possa entrare al Quirinale, perché forte del consenso degli italiani e non grazie ai giochi di palazzo e agli accordi notturni fatti sulla pelle dei cittadini da quelli che dovrebbero essere i loro rappresentanti ma che, il più delle volte, rappresentano solo loro stessi.
Ciò detto, la rielezione di Sergio Mattarella è stata accolta con soddisfazione dalle forze politiche, eccezion fatta per Fratelli d’Italia. Addirittura, quasi con uno spirito festoso. Ma c’è davvero poco da festeggiare e da stare allegri: è un triste giorno per la Repubblica Italiana. Non tanto per la rielezione di Mattarella nello specifico, ma perché siamo di fronte al fallimento del sistema istituzionale e all’ennesima prova di indecenza, incapacità, inaffidabilità e lontananza dal sentimento del Paese reale data dalla classe politica.
Ancora una volta, gli interessi di parte e gli intrighi di palazzo hanno avuto la meglio sull’interesse della nazione e su quello dei cittadini italiani. Ancora una volta la Repubblica parlamentare ha mostrato di essere un sistema auto-referenziale, inadeguato e non autenticamente democratico. Ancora una volta non ci resta che constatare che il senso del pudore e la capacità di provare un minimo di vergogna è una merce sempre più rara in questo Paese, soprattutto tra i nostri governanti.
di Gabriele Minotti