martedì 4 gennaio 2022
Mauro Mellini, il “Garantista Impenitente” del panorama politico-giudiziario italiano (Tolfa 1924 – Roma 2020), Avvocato cassazionista per concorso dal 1960 insieme ad altro campione di garantismo per antonomasia, quel Domenico Marafioti – libero docente in diritto penale con il professor Giuliano Vassalli all’Università La Sapienza, autore del memorabile saggio “La supplenza”, parlamentare radicale della prima ora per quattro legislature, componente laico del Csm (1993-94), consulente del Guardasigilli d’estrazione liberale Alfredo Biondi nel primo Esecutivo di Silvio Berlusconi, ha svolto una intensa attività di scrittore e pubblicista, prendendo tempestivamente posizione su ogni fatto saliente della vita pubblica, con particolare raffinata attenzione alle questioni della “giustizia giusta”, in ossequio alla sua alta concezione di dovere civico.
Tra le decine di saggi monografici, non possono non ricordarsi i più diffusi, seppur anche altri meno conosciuti al di fuori degli ambienti curiali di addetti ai lavori, che rivestano valore di singolare testimonianza storica in presa diretta della stagione di Mani Pulite: “Così annulla la sacra rota”, Roma, 1968; “Sua Eminenza la Pentita ha parlato”, Ancona, 1982 (riedito da Bonfirraro editore con il titolo “La pornofotografa e il cardinale. Storia di una pentita celebre e di un processo infame nella Roma di Pio IX”, con prefazione di Guido Vitiello, Barrafranca, Enna, 2017), “La Fabbrica degli Errori. Breviario di patologia giudiziaria”, Roma, 2005; “Il Partito dei Magistrati”, Bonfirraro editore 2010, saggio additato a precipitato dell’intera sua produzione militante a favore della Giustizia giusta, che meriterebbe una riedizione aggiornata agli affaires Palamara & Saguto, in occasione del trentennale 1992-2022, fino, last but not least, a “’Sta Povera Giustizzia”, Rubbetino 2008, una raccolta sistematica di oltre 160 sonetti di Giuseppe Gioacchino Belli in tema forense-giudiziario.
Ho avuto la fortuna di conoscere Mauro Mellini nel gennaio del ’94, pochi mesi dopo che lui, unica personalità politica di rilievo nazionale, pur non conoscendo accademicamente o professionalmente mio padre, ne ha preso apertis verbis la difesa delle sue ragioni umanitarie, senza conoscere direttamente “i protagonisti” della incresciosa vicenda del proditorio arresto ordito dalla procura di Ancona e senza avere piena contezza della genesi dell’inchiesta con relativa aberrante quanto singolare imputazione. Infatti, egli ebbe subito a scrivere diversi articoli concentrandosi prevalentemente sugli aspetti raccapriccianti del trattamento sanitario riservato ad un anziano docente cardiopatico di 62 anni, accusato della commissione di reato unipersonale di millantato credito del patrocinatore, senza denuncia-querela delle parti offese. D’altronde, correvano i tempi di Mani Pulite, della persecuzione sistematica ai rappresentanti del Caf, caduti in disgrazia e il segretario Achille Occhetto si dichiarava intento nella preparazione della “gioiosa macchina da guerra”, fra il pianto alla Bolognina e il sorriso di condurre i comunisti ad espugnare il potere centrale, pure con l’ausilio delle truppe cammellate della magistratura ordinaria.
Mio padre Franco Bartolomei (1931-2005), all’epoca direttore del dipartimento di Diritto pubblico dell’Università degli studi di Macerata, dove da professore universitario di Diritto amministrativo quale uno dei più brillanti allievi del Maestro Massimo Severo Giannini, insegnava da oltre 30 anni, era stato arrestato e, poiché non collaborativo con ufficio del pubblico ministero, incarcerato senza interrogatorio e senza le accortezze mediche necessarie a un cardiopatico; risultato accusato l’indomani mattina, ristretto in cella, infarto del miocardio, diagnosi che un consulente medico-legale della Procura si premurò di smentire, senza visitarlo, asserendo che tuttalpiù si trattava di un episodio di angina pectoris, per cui il giudizio di incompatibilità col regime carcerario restava affidato a sapiente discrezionalità dei rappresentanti dell’accusa.
Da quei tempi burrascosi con Mauro Mellini nacque una intensa frequentazione e un proficuo scambio di idee, che per me ha rappresentato, dopo i contatti coi Maestri della scuola Giuspubblicistica romana (Massimo Severo Giannini, Leopoldo Elia e Franco Gaetano Scoca), una delle fonti salienti del bagaglio culturale ed esperienziale. Infatti, l’arrivo alla sua scrivania-libreria nello studio di Piazza Bainsizza 1, a Roma, quartiere Prati-Delle Vittorie, era sempre foriero di stimoli, rapporti con i più accreditati giornalisti liberal-garantisti, discussioni sui lavori parlamentari in tema di giustizia, conduzione dei settennati da parte dei vari capi dello Stato succedutisi, da Oscar Luigi Scalfaro in poi.
In quello studio sono approdati alla ricerca di un salvagente e transitati non solo il fior fiore di parlamentari e uomini politici, di ogni provenienza geografica con dominanza spiccata calabro-sicula (in provincia di Agrigento Mauro era conosciutissimo, per aver patrocinato numerosi processi sia per fenomeni di criminalità organizzata, che per reati dei cosiddetti colletti bianchi, perlopiù ipotizzati a carico di funzionari della Pubblica amministrazione), ma pure le più svariate personalità del mondo della cultura (Leonardo Sciascia verso cui Mauro nutriva una ammirazione singolare), dell’imprenditoria (Gamberale) e sovente della magistratura ordinaria (ad esempio Francesco Misiani, autore di “La toga rossa”), oltreché centinaia di avvocati , dai principi del foro ai legulei di provincia, cui con grande generosità e signorile spirito di colleganza, da galantuomo di altri tempi, non lesinava consigli e attività.
Dopo la scomparsa paterna del luglio 2005, Mauro Mellini ha rappresentato per me un punto di riferimento costante e affidabile, condividendo il patrocinio in diversi processi specie dinanzi alla Corte di Cassazione e alla Consulta (sul regime transitorio del giusto processo, ex novellato articolo 111 della Costituzione) e accompagnandolo nei più disparati convegni, da quelli tematici su riforma della giustizia, a quelli di cultura generale, storici o tenuti da Società belliana. Presso l’Università di Macerata, nell’anno accademico 2001/2002, tenne una magistrale lezione sul sistema di Diritto amministrativo nello Stato pontificio, di cui era un cultore assai versato, conoscendo sin nei dettagli il complesso apparato burocratico e giudiziario.
Ora dopo appena un mese dalla dichiarazione dello stato di emergenza, ai sensi del Codice di protezione civile (ora derogato nel limite massimo di 24 mesi, con decreto legge in corso di approvazione prima della riunione in seduta comune del Parlamento per eleggere il nuovo inquilino del Quirinale), con una consapevolezza storico-letteraria inusitata (i riferimenti espliciti a “Storia della colonna infame” di Alessandro Manzoni, ma il richiamo implicito alle atmosfere di pestilenza continentale, evocate, ad esempio, nel capolavoro di Albert Camus), il nostro Autore coglie due tratti salienti. Che l’emergenza pandemica non limiterà le sue ricadute alla sfera socio-economica e delle manifestazioni sportive, ma intaccherà in radice il tessuto civile, con la creazione di contrapposte figure di “untori” “negazionisti” da un lato e “salvatori” “governanti buoni” dall’altro lato; inoltre che la crisi pandemica coinvolgerà la già precaria salute delle istituzioni repubblicane, determinando la connessione tra l’espandersi del virus Covid-19 e la durata del Governo Conte.
Lo scritto si chiude citando l’accusa di Vittorio Sgarbi, ritenuta sproporzionata, che Giuseppe Conte sia solo un untore mediatico da mandare a un altrettanto mediatico patibolo e invocando la beata ignoranza di chi “non ha letto Manzoni, la storia della Colonna Infame e le molte altre cose scritte sulla peste di Milano”. Mauro Mellini ha scritto l’articolo il 6 marzo 2020 – a ridosso della promulgazione del decreto legge numero 18/20 Cura Italia, disponente il lockdown di quasi tutte le attività produttive – e non poteva con esattezza sapere gli sviluppi futuri, la trasformazione della pandemia in endemia con obblighi vaccinali diffusi e duraturi, ma certo aveva intuito con nettezza il nefasto influsso che l’appello alla pandemia avrebbe avuto nella permanenza di un Esecutivo a dir poco di impronta trasformista.
Oggi, a oltre 18 mesi di distanza, la società civile continua a vivere nella pandemia e sopravvivere il Governo in perdurante regime emergenziale, in cui la democrazia viene squalificata come emergenza pericolosa. Non si ha più il tempo di discutere prima di deliberare (vedi l’abortita sessione di bilancio), perché ci ripetono che siamo in guerra, con ciò intendendo uno stato di emergenza permanente quasi irreversibile, ove per essere buoni cittadini occorre accettare acriticamente la sospensione di ogni attività ritenuta potenzialmente pericolosa. Il diritto di contestare le decisioni politiche, di manifestare liberamente il proprio opinamento, di dubitare della validità di una normativa, il diritto in pratica di agibilità dello spazio pubblico, di cui la manifestazione del dissenso costituisce elemento fondante nelle società liberal-democratiche; tutti questi diritti fondamentali e imprescrittibili sono degradati a... inconvenienti, al limite sfera di legalità (Barbara Stiegler, “La Democrazia in Pandemia”, Gallimard, Paris, 2021).
di Jacopo Severo Bartolomei