martedì 16 novembre 2021
Il significante “sociale” viene vilificato, compromettendone ogni possibile accezione, quando è associato come attributo alla nefasta, quanto insignificante, espressione “giustizia sociale”, ossia una frode semantica dai risvolti demagogici illimitati. La diffusione di questa anfibola e fideistica concezione pseudo progressista della cosiddetta “giustizia sociale” rappresenta la minaccia più perniciosa per la maggior parte dei valori fondanti di una civiltà libera.
Non vi è alcun dubbio che in una società civile e liberale, lo Stato debba proteggere ciascun cittadino dalla miseria, tramite un sostentamento sotto forma di reddito minimo garantito. Questo perché la suddetta protezione non solo non inficia in alcun modo la libertà e la certezza del diritto, ma rappresenta soprattutto un interesse per tutta la cittadinanza affinché si possa assicurare a coloro che cadono per svariati motivi in miseria, non potendo di conseguenza più provvedere a se stessi, una dignitosa e umana assistenza economica e quindi esistenziale. Però quando il termine “giustizia sociale” diventa surrettiziamente inteso come “giustizia distributiva”, allora si realizza compiutamente la demagogia politica di coloro che vorrebbero che la società si trasformasse in un sistema economico gestito da un potere centrale che comprometta il libero mercato e le libertà individuali, in quanto impedirebbe agli individui di raggiungere ciò a cui potrebbero aspirare con le proprie capacità, perché privati di ogni mezzo per ottenere ulteriori investimenti.
Una politica socio-economica con questa impostazione distributiva si scontrerebbe con la nostra civiltà economicamente progredita in cui i redditi sono divisi in modo diseguale e quindi l’uso delle scarse risorse è diretto e limitato a dove producono il massimo profitto. In una economia competitiva di mercato, proprio grazie a una distribuzione diseguale delle risorse, lo stesso povero otterrebbe più di quanto ricaverebbe in un sistema a direzione centralizzata. In realtà, “la giustizia sociale” nasconde l’intento di ottenere la protezione a favore di interessi acquisiti o la creazione di nuovi privilegi. Tutto ciò che essa rappresenta è non soltanto socialmente ingiusto, ma è anche soprattutto antisociale, perché significa semplicemente la creazione e la protezione di interessi illegittimi a favore di una parte della cittadinanza, che diventa privilegiata. Il concetto è intellettualmente squalificato e demagogico perché con esso si vogliono eristicamente attirare le attenzioni e il favore, nonché il consenso elettorale, della massa abbacinata. La responsabilità morale e individuale per i propri comportamenti e le proprie scelte è decisamente antitetica a qualsiasi modello globale di distribuzione economica.
Il cosiddetto “reddito cittadinanza” istituito in Italia è la testimonianza più chiara delle conseguenze perniciose che genera la “giustizia distributiva”. Secondo i dati ufficiali dell’Inps (Istituto nazionale per la previdenza sociale) ammontano a 3,5 milioni gli italiani che fruiscono di un sussidio sociale, di cui 1,2 milioni nuclei familiari ricevono il reddito di cittadinanza e altri 128mila nuclei ricevono la pensione di cittadinanza, di cui 753mila sono minorenni. Per quanto riguarda l’importo medio di erogazione, il reddito di cittadinanza si assesta sui 581 euro, mentre la pensione di cittadinanza sui 226 euro. Il totale del costo di questo misura di sussidio sociale ammonta intorno ai 7 miliardi di euro annui.
Il vizio di fondo di questo provvedimento legislativo a favore degli indigenti consiste nel fatto che si è confuso il concetto del sussidio di povertà con quello di una politica attiva a favore del lavoro per ridurre la disoccupazione. Questo sconcertante errore ha creato solo caotici problemi, senza risolvere quello per cui il reddito di cittadinanza sarebbe stato istituito, ossia l’assistenza economica e sociale per 5,6 milioni di bisognosi, che vivono in uno stato di indigenza assoluta, tra cui ci sono 1,2 milioni di minorenni, secondo i dati ufficiali Istat.
Un esempio apodittico del fallimento che il “reddito di cittadinanza” sta manifestando nella sua intera struttura, è la parte che riguarda i “centri dell’impiego”, i quali oltre a sostituire i precedenti “uffici di collegamento” da un punto di vista nominale, nella sostanza non hanno determinato alcun miglioramento a favore delle politiche per il lavoro, confermando lo spreco di denaro dei precedenti uffici che hanno sostituito. In questi cosiddetti “centri per l’impiego” lavorano circa 11.600 persone, un numero peraltro alquanto esiguo in rapporto alle loro funzioni da svolgere (sarebbero dovute essere almeno 20mila) e il personale di questi centri scarseggia proprio nelle regioni in cui si concentra il maggior numero di disoccupati.
Inoltre, i 2.486 “navigator” previsti dalla normativa vigente, che avrebbero dovuto assistere coloro che percepiscono il “reddito di cittadinanza” a trovare un lavoro, non hanno ottenuto alcun risultato rilevante. Infatti, solamente un terzo dei percettori del suddetto reddito di coloro che possono lavorare hanno sottoscritto un “patto per il lavoro”, che nei fatti non si è mai realmente concretizzato, salvo esigue eccezioni. Dulcis in fundo, merita citare l’aspetto più fallimentare e aberrante di questo sussidio sociale, quello rappresentato dalla crescita esponenziale dei cosiddetti “furbetti del reddito di cittadinanza” ovvero coloro che pur non possedendo alcun titolo per percepirlo, ne fruiscono, molto spesso vantandosene anche sui social, con insolente protervia. All’interno di questa categoria (tipicamente italiana) annoveriamo, nel loro esecrabile flagizio, generici criminali, mafiosi, camorristi o esponenti della ’ndrangheta, anche se detenuti in carcere o in libertà vigilata e la loro variegata manovalanza.
Inoltre, in questa categoria, emergono anche i furbetti che lavorano in nero, i quali determinano un doppio danno per lo Stato per la loro ingluvie, infatti da un lato percepiscono un sussidio per cui non vantano alcun diritto, locupletando le proprie finanze e dall’altro non pagano alcuna tassa, perché svolgono in modo occulto la propria attività lavorativa, danneggiando ulteriormente l’erario. Come si evince da questa mio impressivo regesto, la concezione del “reddito di cittadinanza”, nella sua accezione distributiva e non emergenziale, oltre a penalizzare il sistema produttivo del libero mercato, mortifica la dignità individuale, riducendo il cittadino, nelle migliori delle ipotesi a essere incapace di emanciparsi economicamente e a realizzare il proprio merito e le proprie qualità, invece nella prassi ad agire in modo illegittimo e illegale per ottenere un sussidio che non gli spetta, privando la collettività delle risorse economiche per assistere coloro che realmente non possono lavorare o che vivono in uno stato economico di indigenza assoluta.
Secondo voi è uno Stato giusto, quello, che invece di abbassare il costo del lavoro riducendo il cuneo fiscale, si presta a sperperare ingenti risorse finanziare, a spesa dei parossistici contribuenti, per finanziare malavitosi ed evasori, anziché assurgere alla sua funzione di proteggere chi non può lavorare e rilanciare economicamente coloro che si trovano in uno stato di emergenza socio-economica?
“Quisque faber fortunae suae” (Appio Claudio Cieco)
di Fabrizio Valerio Bonanni Saraceno