Per l’Italia “una bacchetta” al Quirinale

venerdì 5 novembre 2021


Leader e partiti all’assalto del Colle. Quello che impegna le segreterie sono le mosse per la nomina del nuovo Capo dello Stato. È come se le consorterie non avessero colto il segnale dell’astensione quale indice di disaffezione e protesta dell’elettorato contro una classe politica tutta concentrata sul potere e i ruoli. È pur vero che il presidente della Repubblica, terminato il settennato di Sergio Mattarella (pare sfumata l’ipotesi di un suo reincarico come fu per Giorgio Napolitano), deve essere indicato a breve dal Parlamento. Ma ciò che sconcerta sono i criteri con cui si disputa questa sfida. Se il Paese ha trovato super Mario Draghi per il Governo altrettanto i cittadini sperano per il Quirinale.

Il primo nodo è se il premier attuale deve restare a Palazzo Chigi e terminare la legislatura o è giunta l’ora di Draghi capo dello Stato. Per questa soluzione propende più il centrodestra, che avrebbe due interessi: andare alle elezioni con la casella vuota del presidente del Consiglio da spendere in campagna elettorale e per sostenere la candidatura di Silvio Berlusconi, che ha fatto sapere di essere disponibile per servire il Paese. Contrario, invece, il centrosinistra con Enrico Letta in testa che per il Partito Democratico ha usato un’espressione colorita: “La destra è come i criceti nella ruota, non facciamo il loro gioco”. E benché circolino i nomi di Paolo Gentiloni e David Sassuoli, il segretario piddino intendeva alludere all’ipotesi secondo la quale nelle fila leghiste del ministro per lo Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti, c’è chi medita con la nomina di Draghi di “imporre un semipresidenzialismo”.

“Draghi potrebbe guidare il convoglio del Governo anche da fuori dal Colle. Sarebbe un semipresidenzialismo de facto in cui il presidente della Repubblica allarga le sue funzioni approfittando di una politica debole” non ne ha fatto mistero Giorgetti. Un vero colpo di mano, cambiare lo statuto costituzionale come piacerebbe dalle parti di Fratelli d’Italia oltre che della Lega. Non sono convinti di questa ipotesi gli Azzurri. “Crediamo che Draghi debba portare avanti il lavoro iniziato, Recovery Plan e battaglia al Covid”, ha commentato Antonio Tajani. E anche Giuseppe Conte e Matteo Renzi si sono mostrati assai cauti, con i Cinque Stelle fuori dai denti per i quali questa ipotesi semipresidenziale sarebbe “eversione”, come l’ha definita Mario Perantoni, il grillino presidente della Commissione Giustizia della Camera.

Tuttavia, il toto-nomi impazza: da Pierferdinando Casini a Giuliano Amato, da Romano Prodi a Pier Carlo Padoan fino a Marta Cartabia. Tutto tranne quello che vorrebbero gli italiani, a mio parere. I cittadini vorrebbero che lo stesso profilo Draghi si replicasse al Quirinale, ma non con l’imposizione del semi-presidenzialismo. Con il requisito della cultura. L’uomo giusto (o la donna) dovrebbe essere infatti un ambasciatore garante del talento e del genio italiano, che possa rimettere in piedi oltre all’economia, con l’ex presidente della Banca centrale europea a Palazzo Chigi, la missione culturale e cioè il vero Made in Italy. Per questo identikit spiazzante un nome c’è: Riccardo Muti. Proprio il Maestro, dirigendo a luglio scorso il G20 della Cultura con un concerto al Quirinale, dimostrò con la sua “bacchetta” di ridare tono all’Italia e all’Europa. Un’espressione metaforica per dire come l’eccelso tra i grandi direttori d’orchestra potrebbe rappresentare la sintesi della nostra lirica senza confini come la musica per un mondo nuovo.

Occorre una rivoluzione identitaria, bisogna ritrovare le radici e l’ingegno. E Muti in questo senso rappresenta nel punto più alto il cuore di una nazione. Ha detto di recente: “Sono stanco di vivere, preferisco morire. Perché è un mondo in cui non mi riconosco più. E siccome non posso pretendere che il mondo si adatti a me, preferisco togliermi di mezzo. Come nel Falstaff: Tutto declina. Parole amarissime, ma è lo stesso pensiero di milioni di cittadini. “Ho avuto la fortuna di crescere negli anni Cinquanta – ha spiegato – rimpiango la serietà. Lo spirito con cui Federico II fece scolpire sulla porta di Capua, sotto il busto di Pier delle Vigne e di Taddeo da Sessa, il motto Intrent securi qui quaerunt vivere puri. Cioè entrino sicuri coloro che intendono vivere onestamente. Questa è la politica dell’immigrazione e dell’integrazione che servirebbe”. In tutti i sensi e per tutti.

Non basta questo per pregare Muti d’intonare, invece che un Requiem per l’Italia, un Inno alla Gioia per i giovani, affinché possano recuperare la serietà, il rigore, l’onestà e la speranza? E soprattutto ciò che è andato più smarrito: l’umiltà? E chi meglio di un genio che ha detto: “Ai mei funerali non voglio l’applauso. Io voglio il silenzio assoluto”. Non un dittatore o un tiranno come in passato, ma un Maestro.


di Donatella Papi