mercoledì 15 settembre 2021
Capitolo Secondo
Lo stile di governo dei recenti sindaci della Capitale
Se pensiamo che il Papa Re fino al 1870 alloggiava al Quirinale, motivo per il quale il percorso dei soldati del Regno d’Italia dalla Breccia di Porta Pia al palazzo pontificio oggi si chiama Via XX Settembre, che ospitò poi il Re fino al referendum del 1946 e da allora è la sede del Presidente della Repubblica, non ci si può aspettare che ci siano stati poi grandi cambiamenti nel resto della città. La situazione della Capitale come la viviamo ogni giorno è anche il risultato del lavoro e delle scelte dei sindaci che si sono susseguiti nel corso del tempo. Dai tempi di Torlonia e di Nathan sono passati 150 anni ma visto l’approssimarsi di nuove elezioni è meglio limitarsi ad una sintesi del lavoro dei primi cittadini negli ultimi trent’anni. Dopo Giulio Carlo Argan, Luigi Petroselli e Ugo Vetere, nel 1993 viene eletto un giovane Francesco Rutelli, politico con un percorso che andava dai radicali ai verdi a partiti di centrosinistra. È il sindaco che gestirà i fondi per il Giubileo del 2000 e darà una ventata di novità nel panorama cittadino. A lui va riconosciuto l’impegno per l’aggregazione, specialmente nelle periferie, che immagina le “cento piazze” della Capitale, che apre nuovi centri sportivi affidandoli alla gestione privata, che dà il via all’Auditorium di Renzo Piano, alla Nuvola di Fuksas, alla Nuova Fiera di Roma, e che ha l’idea di “Videocittà”, giunto in questi giorni alla sua quarta edizione e che andrà ad Expo 2021 a Dubai il prossimo anno. Mai troppo amato dai romani, rimarrà in carica fino al 2001.
Da quell’anno al 2008 in Campidoglio arriva Walter Veltroni che conquisterà la copertina del “Time” come uno dei big city boss mondiali del momento. Effettivamente Roma ha un Pil che sale più della media nazionale, lavora alla “cura del ferro” per migliorare la viabilità urbana, inaugura ripetutamente parti dell’Ara Pacis e le strisce blu con l’intenzione di aumentare il ricambio di posti per le auto, si ipotizza la stesura del Piano Urbano Parcheggi, fino a guadagnarsi, forse con un po’ di ottimismo, il titolo di “Modello Roma”. Soprattutto ottiene un’alta e capillare efficienza nei servizi comunali. Nel 2008 si ricandida Francesco Rutelli ma a sorpresa, anche per gli stessi vincitori, il nuovo sindaco è Gianni Alemanno. Il suo programma è “Roma cambia” fatto di 16 punti dove al primo posto ci sono la sicurezza e gli interventi contro la microcriminalità. Sarà lui a realizzare un censimento delle persone nei campi nomadi, ad ottenere la disponibilità di 300 militari a controllo delle strade e a consentire le armi da fuoco per i Vigili Urbani. Alemanno è il primo sindaco di Roma a incontrare ufficialmente la comunità musulmana nella Moschea e in altra occasione la comunità Rom. A lui si deve lo svincolo dal patto di stabilità dei fondi per il Museo della Shoah a Villa Torlonia (la prima ipotesi era del 1997) e lo Statuto di Roma Capitale. Rende pubblico che il Comune di Roma ha accumulato più di 8 miliardi di debiti, riceve dal Governo 500 milioni per tamponare la situazione e da questo viene nominato commissario per il Monitoraggio del deficit capitolino.
In realtà si trova a dover lavorare con una struttura coesa e ben costruita dal sindaco uscente e le soluzioni, per una destra mai preparata ad amministrare, si riducono alla nomina di co-direttori, a parità di competenze e accesso agli atti, e a dover scendere a patti, così si racconta nei corridoi che portano all’Aula Giulio Cesare, con due cordate della nuova maggioranza in competizione tra loro. Forse è stato il più solitario dei primi cittadini romani. Con le elezioni del 2013 diviene sindaco Ignazio Marino, medico che vive a due passi dal Pantheon e da Piazza Sant’Eustachio e, come adesso sappiamo, parcheggia la sua Panda dove può. L’auto viene danneggiata e per motivi di sicurezza gli viene consentito di posteggiarla negli spazi riservati alle vetture del vicino Senato. Da questo nasce il misero pandagate che occuperà a lungo le pagine dei giornali. Un po’ la stessa storia è accaduta per la storia degli scontrini per i quali comunque nel 2015 riconsegnò alla Ragioneria del Comune 20mila euro. È vero che a volte in occasioni ufficiali ha dimenticato di indossare la fascia tricolore ma l’errore fu nel ritenere di poter agire in modo indipendente senza almeno cercare il consenso dei gruppi che lo avevano eletto e che alla fine lo avrebbe sfiduciato.
Dopo Ignazio Marino, dal 2015 al 2016 si apre una parentesi con la gestione ordinaria di Francesco Paolo Tronca, funzionario palermitano di grande levatura, già Prefetto di Milano, che i romani ricordano ancora con piacere soprattutto per gli interventi, non sbandierati ai media ma distribuiti in diverse parti della città, sulle eterne buche di una città che resiste ancora. Riesce ad ottenere lo sblocco dei cantieri aperti per il Giubileo, trova un accordo per il salario accessorio dei dipendenti comunali, vara un piano anticorruzione che prevede la rotazione del personale capitolino e il contrasto dell’abusivismo commerciale. Ha lasciato come consiglio ai suoi successori il consiglio di non cadere nella rassegnazione all’inefficienza che è il primo passo per distruggere quanto di una democrazia si è riusciti a costruire. Arriviamo al nuovo sindaco di Roma, nel 2016, Virginia Raggi eletta al ballottaggio contro Roberto Giachetti con oltre il 65 per cento dei voti e una maggioranza bulgara in fatto di Presidenti di Municipio. Premesse di un consenso che avrebbe potuto far immaginare un impatto sul futuro della Capitale quantomeno straordinario. Sappiamo tutti che non è stato così. In un sondaggio del Sole24 Ore a luglio 2020 riguardante il gradimento dei primi cittadini è risultata al posto 99 su 100. Certo, è ancora presto per fare un bilancio distaccato e obiettivo sul suo operato e qui dobbiamo fermarci, come fecero i ciclisti del Giro d’Italia n. 101 a Via dei Fori Imperiali nel 2018. Si trattava di professionisti abituati ad affrontare vento, neve, ghiaccio, temperature desertiche, grandine e cadute impressionanti, ma fecero solo tre giri su dieci ad andatura ridotta perché le strade di Roma erano troppo pericolose per andare in bicicletta.
(*) Qui per leggere il primo capitolo
di Quintino Di Marco