venerdì 3 settembre 2021
Alla riapertura stagionale un fantasma si aggira: il reddito di cittadinanza. Ci sono già anticipazioni al fulmicotone. “Il reddito di cittadinanza va cancellato, perché si è dimostrato un fallimento assoluto. A settembre lo proporremo e io metterò la prima firma”, ha tuonato il leghista Matteo Salvini da una delle sue tappe estive. Le posizioni dell’alleata Giorgia Meloni sono pressappoco le stesse: “La povertà si combatte creando fonti di lavoro e non assistenzialismo”. È nota l’urticante contrarietà dei Fratelli d’Italia su questa misura, che ha prodotto lavoro nero, illegalità, sfruttamento e perdite. Ma dal fronte avversario Giuseppe Conte, appena prese le redini del Movimento 5 stelle, ha formalizzato il suo altolà: “Sul reddito di cittadinanza il centrodestra e anche Italia viva non passeranno”. L’ex premier ha spiegato sulle colonne del Corriere della Sera che il reddito di cittadinanza è “un fatto di necessità oltre che di civiltà che garantisce coesione e sicurezza sociale”, affermando che se tornasse indietro lo riapproverebbe “non una, ma cento volte”. Un’affermazione che ha scatenato la reazione di Matteo Renzi, il quale ha mostrato sui social il testo del quesito con cui Italia viva formalizzerà la richiesta addirittura di un referendum abrogativo.
Il dibattito è così acceso che il presidente del Consiglio Mario Draghi è sceso in campo e ha dichiarato all’Ansa: “È troppo presto per parlare di possibili modifiche allo strumento del reddito di cittadinanza, che garantisce un sussidio alle persone disoccupate o con un reddito sotto una certa soglia. Il concetto alla base io lo condivido appieno”.
Sono idee che L’Opinione ha formulato da tempo, richiamate nei giorni scorsi da Maurizio Oliviero: “Purtroppo la proposta dell’abolizione è adoperata come bandiera di partito, mentre riguarda un problema prettamente sociale, ovvero di tutti – ha scritto –. Invece se sei di destra ti devi schierare contro e viceversa, come se i poveri fossero merce di consenso politico e potessero scomparire d’incanto solo con questa azione”. Le conclusioni e le proposte dell’articolista sono interessanti e fondate: “Si dà per scontato – fidando in chissà quale miracolo – che, abolito il reddito, il lavoro lo troveranno tutti”. Il punto è questo: il concetto di “lavoro”, sui cui peraltro è incardinata la nostra Costituzione all’articolo 1. Ma se il lavoro non c’è, se non lo fanno più moltissimi, se i giovani non lo cercano, quasi non conviene lavorare, se chi lavora spesso è ridotto in schiavitù, se ora c’è il reddito civile universale di povertà e misericordia, i mille modi in cui definiscono la percezione del mensile Grillo, i buonisti, la sinistra, anche una parte fraterna della Chiesa e i disperati del mondo in marcia verso l’Occidente, cosa resta delle ragioni del lavoro? Quali?
Quelle espresse nell’inquietante cartello di ferro aguzzo, sbilenco e tortuoso, che ancora penzola su qualche campo di sterminio della memoria? “Arbeit macht frei”, che in tedesco vuol dire “Il lavoro rende liberi”? Partiamo dal basso una volta tanto. Mi disse una rumena, con modo stizzito e umiliato: “Patrona, cosa vuoi che facciamo?”. E un’altra brandendo il coltello con cui tagliava il pane: “Quei soldi del reddito sono nostri, della Comunità europea, il nostro paese ce li dà qui!”. Solo due ritagli di un vasto campionario. Povera gente! Occorre incamminarsi dentro le ragioni dei poveri, degli ultimi, degli altri se vogliamo aiutare o anche solo governare i tempi. Mi sono messa a studiare i principali approcci alla povertà, il ruolo delle nazioni e la materia del lavoro come dignità dell’uomo. Ed effettivamente ci sono verità universali, come spiegava Maurizio Oliviero, che sono sociali e riguardano tutti. La dura e cruda verità è che la maggior parte dei poveri non possono lavorare. Sono per certi versi quel popolo ai piedi della montagna a cui Gesù proclama: “Beati…”.
Però lo stesso Gesù nella Parabola dei talenti elogiava colui che aveva fatto fruttare i soldi del padrone, senza chiedere neppure come, ma malediceva quelli che per non sbagliare non si erano dati da fare. Allora? Partiamo dalla fine. Il reddito di cittadinanza in Italia non so che fine farà, ma andrebbe mantenuto assolutamente per i Rom, per quel popolo che da oltre un secolo è qui in Italia, che passa da un campo a uno sgombero, perché hanno iniziato a prendere affitti, pagarli con la carta, pagare bollette, spesa, curarsi e mandare i figli a scuola. Come nessuno avrebbe pensato che sarebbero riusciti a fare. Ricordiamoci che in Mafia Capitale uscì la tremenda frase: “Gli zingari rendono più della droga”. Per cui il reddito in questo caso è stato il miglior investimento che lo Stato abbia potuto fare. Lavoreranno mai? Per ora nessuno li ha cercati, li ha formati, li ha messi nella condizione. Almeno quelli che seguo io ci hanno provato, ma sono stati mandati via dopo qualche mese per prendere altri disperati e così non metterli in regola. E ovviamente rinunciare al beneficio e tornare nella condizione di senza tetto sapendo come andrà a finire, non lo fa quasi nessuno. Mi pare che leader e partiti abbiano materia e responsabilità per gestire questa problematica piuttosto che azzannarsi in una nuova lite.
di Donatella Papi