mercoledì 1 settembre 2021
Nella notte tra il 2 ed il 3 agosto 2021 la Camera dei deputati ha approvato il disegno di legge recante la “delega al Governo per l’efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari”, meglio noto come riforma Bonafede-Cartabia. In attesa dell’esame da parte del Senato, i primi commentatori hanno sollevato perplessità sulla tenuta costituzionale degli istituti che il disegno di legge introduce, e più in generale sulla valenza complessiva della riforma e sulla sua idoneità a raggiungere gli obiettivi dichiarati, coniugando le esigenze di efficientamento del sistema con i diritti e le garanzie delle parti del processo penale. Uno dei nodi più complessi è quello relativo alla nuova improcedibilità per superamento dei termini di durata massima del giudizio di impugnazione – istituto in ragione del quale il processo penale si conclude ex abrupto con la declaratoria di improcedibilità se il giudizio d’appello o quello di cassazione non vengono definiti nel termine massimo indicato dal nuovo articolo 344-bis Codice di procedura penale – in relazione alla quale si rimanda, per una più articolata disamina.
La riforma interessa profili più propriamente civilistici, poiché le modifiche riguardano anche il testo dell’articolo 578 Codice procedura penale. Nella formulazione attuale esso ha per oggetto gli effetti civili della decisione con cui il giudice penale dichiara l’estinzione del reato per amnistia o prescrizione; lo si riforma inserendo un nuovo Comma 1-bis, a mezzo del quale si prevede che “Quando nei confronti dell’imputato è stata pronunciata condanna, anche generica, alle restituzioni o al risarcimento dei danni cagionati dal reato, a favore della parte civile, il giudice di appello e la Corte di Cassazione, nel dichiarare improcedibile l’azione penale per il superamento dei termini di cui ai commi 1 e 2 dell’articolo 344-bis,rinviano per la prosecuzione al giudice civile competente per valore in grado di appello, che decide valutando le prove acquisite nel processo penale”. Un primo dato balza agli occhi: mentre nel caso di declaratoria di estinzione del reato per amnistia o prescrizione al giudice penale è comunque riservata la decisione sull’impugnazione, se pure ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili (articolo 578, comma 1, Codice di procedura penale), ciò non avviene nel caso di declaratoria di improcedibilità dell’azione penale per superamento dei termini di durata massima del giudizio di impugnazione (nuovo art. 578, comma 1-bis, del Codice di procedura penale). Tale scelta sembra conseguire al fatto che gli istituti di cui al comma 1 dell’articolo 578 Codice di procedura penale hanno natura sostanziale, mentre l’improcedibilità di cui al comma 1-bis avrebbe natura strettamente processuale. Probabilmente è tale considerazione che ha indotto gli estensori del disegno di legge a optare per una formulazione del testo della novella diverso da quello esteso nel comma 1 dell’articolo 578 del Codice di procedura penale e molto più simile a quello contenuto nell’articolo 622 del Codice di procedura penale relativo al diverso caso di annullamento della sentenza ai soli effetti civili da parte della Corte di Cassazione.
Viene così sancita una netta separazione delle posizioni processuali dell’imputato e della parte civile: al primo (l’imputato) – nella più generale cornice delle finalità deflattive del processo penale tracciata dal disegno di legge – viene assicurato l’immediato accesso a un istituto (l’improcedibilità per superamento dei termini di durata massima del giudizio di impugnazione) che chiude all’istante la vicenda penale e che è, peraltro, in netta ed evidente controtendenza rispetto alla pur recente riforma della prescrizione operata con la legge 9 gennaio 2019 n. 3; alla seconda (la parte civile) viene invece preclusa la facoltà di veder decisa in via definitiva la pretesa risarcitoria legittimamente avanzata nella sede penale, che dovrà giocoforza migrare nella differente sede civile.
La distonia ha destato condivisibili perplessità, per le pregiudizievoli ricadute sulla posizione della parte civile; perplessità ben sintetizzate nel parere reso dal Csm lo scorso 29 luglio 2021, quando il disegno di legge ancora doveva essere approvato alla Camera dei deputati: “A parte l’equivoca disposizione in cui è previsto che il giudice civile decida “valutando le prove acquisite nel processo penale” di cui non è chiara la assoluta intangibilità delle prove assunte in altro giudizio, si può paventare un effetto paradossale dalla riforma, ossia che la ragionevole durata del processo sia assicurata solo agli imputati, mentre per le parti civili vi sarebbe una disciplina deteriore rispetto a quanto ad oggi previsto dall’articolo 578 del Codice di procedura penale in caso di dichiarazione di prescrizione del reato pronunciata nel giudizio di gravame.
Infatti in tali ultimi casi la norma fa salva la decisione di primo grado di condanna al risarcimento del danno anche con un’eventuale provvisionale, a volte con la provvisoria esecutività di tali statuizioni (articoli 539-540 del Codice di procedura penale), che diverrebbero invece inefficaci a seguito della declaratoria di improcedibilità”.
I punti controversi sembrano essere sostanzialmente tre:
1) la riforma assicura la ragionevole durata del processo penale, ma pregiudica la posizione della parte civile, in quanto la sua pretesa risarcitoria non è definita nella sede prescelta (penale) ma reindirizzata al giudice civile, con inevitabile dilatazione dei tempi processuali;
2) le prove verrebbero acquisite nel primo grado di un processo penale che si concluderebbe poi, in appello (o in cassazione), con una declaratoria di improcedibilità, con successiva valutazione delle prove assunte in sede penale da parte del giudice civile; 3) la parte civile subirebbe l’ulteriore pregiudizio per il fatto che le statuizioni civili contenute nella sentenza penale di condanna resa nel primo grado di giudizio (il riconoscimento della cosiddetta provvisionale) risulterebbero inefficaci a seguito della sentenza di improcedibilità pronunciata dal giudice dell’impugnazione. Quello della ragionevole durata del processo è un tema la cui portata non è limitata alla posizione dell’imputato; si tratta di un diritto di valenza e carattere generali, che l’articolo 111 della Costituzione e l’articolo 6 della Convenzione Edu assicurano a tutte le parti del processo, civile o penale che esso sia.
Le Corti internazionali – in particolare la Corte Edu – sono sempre più tese a valorizzare il diritto della vittima di reato alla ragionevole durata del processo: basti ricordare la recente sentenza della Corte Edu, Sezione I, 18 marzo 2021, Petrella c. Italia, ric. n. 24340/07, con cui l’Italia è stata condannata per l’ingiustificata inerzia dell’autorità giudiziaria, che in un caso di non particolare complessità, e senza che fossero compiuti atti istruttori, aveva concluso le indagini preliminari dopo ben cinque anni e mezzo con un provvedimento di archiviazione per prescrizione del reato, che aveva precluso alla persona offesa di agire per il risarcimento del danno da reato, mediante l’esercizio dell’azione civile nel tipo di procedimento (penale) che egli aveva scelto di avviare in conformità alle vigenti disposizioni di legge. Vi è inoltre da considerare che la decisione della vittima di reato di azionare la pretesa risarcitoria davanti al giudice penale piuttosto che di introdurla in un autonomo giudizio civile, deve ritenersi il risultato di una scelta consapevole operata dalla persona offesa, che si prende i vantaggi indubbiamente connessi all’economia processuale del simultaneus processus, rinunciando però alle specificità del processo civile, consapevole del fatto che “al di fuori di quanto attiene alla natura “civilistica” dell’azione, i poteri ed i comportamenti processuali della parte civile sono disciplinati dal codice di procedura penale”. La persona offesa potrebbe inoltre decidere di esperire l’azione civile nel processo penale in considerazione di specifiche valutazioni legate alle diverse modalità di introduzione della prova nel processo, che caratterizzano e differenziano la sede penale da quella civile. È noto infatti che nel processo penale, per effetto di quanto disposto dall’articolo 191 Codice di procedura penale, “le prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge non possono essere utilizzate”. Non così nel processo civile, ove “la categoria dell’inutilizzabilità prevista ex articolo 191 Codice di procedura penale in ambito penale non rileva” in quanto le c.d. prove atipiche sono comunque ammissibili, nonostante siano state assunte in un diverso processo in violazione delle regole a quello esclusivamente applicabili, e questo è possibile perché il contraddittorio è comunque assicurato dalle modalità tipizzate di introduzione della prova, tipiche del giudizio civile.
Il citato parere del Consiglio Superiore della Magistratura richiama l’equivoca disposizione che rimette al giudice civile la valutazione di prove acquisite nel processo penale. Il Csm dubita della “assoluta intangibilità” nella sede civile delle prove assunte nel giudizio penale e il dubbio appare non scevro di fondamento, perché il comma 1-bis dell’articolo 578 del Codice di procedura penale sembra autorizzare il giudice civile a valutare in quella specifica sede le risultanze dell’istruttoria risalente al processo penale di primo grado, secondo un meccanismo non dissimile da quello previsto nell’ambito del giudizio di rinvio ex 622 del Codice di procedura penale, rispetto al quale la Corte di Cassazione ha più volte chiarito che “la corte di appello competente per valore, alla quale la Corte di cassazione in sede penale abbia rinviato il procedimento ai soli effetti civili, può utilizzare come fonte del proprio convincimento le prove raccolte nel precedente giudizio penale e ricavate direttamente dalla sentenza rescindente”, e sottoporle – al pari di qualsiasi altra prova atipica – ad autonoma valutazione, specificamente rivolta ad accertare la responsabilità civile del soggetto agente.
La differenza sostanziale tra i due procedimenti sta però nel fatto che il giudizio di rinvio previsto dal comma 1-bis dell’articolo 578 del Codice di procedura penale – contrariamente a quanto avviene nel giudizio di rinvio conseguente all’annullamento in Cassazione della sentenza ai soli effetti civili – si innesterebbe su un processo penale travolto in appello dalla declaratoria di improcedibilità. Sotto questo profilo il comma 1-bis che la riforma Bonafede-Cartabia inserisce nell’articolo 578 del Codice di procedura penale sembra spalancare il campo a problemi concernenti i profili, fra loro connessi, della intangibilità delle prove acquisite nella sede penale (e nell’ambito di un processo poi concluso con pronuncia di improcedibilità) e della valutazione da parte del giudice civile di tali prove. Esso non premia – anzi, al contrario, ingiustificatamente penalizza – la scelta della persona offesa di esercitare l’azione civile nella sede penale, perché la priva del carattere di ragionevole stabilità, e la connota di una nuova precarietà e ambulatorietà, dovute al sempre possibile ritorno alla sede civile che consegue alla pronuncia di improcedibilità in appello ex articolo 344-bis del Codice di procedura penale, con buona pace per la precedentemente scelta della via penale da parte della persona offesa dal reato.
(*) Tratto dal Centro studi Rosario Livatino
di Angelo Salvi (*)