lunedì 23 agosto 2021
Silvio Berlusconi è stato, a suo tempo, un innovatore. Al Cavaliere va riconosciuto, se non altro, il merito dell’intraprendenza, che caratterizza tutti gli imprenditori, in fondo. Il passare degli anni sembra non aver minimamente indebolito quest’attitudine di Silvio Berlusconi: la prova di ciò sta nella sua proposta, rivolta agli alleati Matteo Salvini e Giorgia Meloni, di unire le forze – e i consensi – in un unico soggetto politico di centrodestra. Una proposta senz’altro degna di nota, ma – diciamocelo pure – difficile da realizzare in concreto.
Il Cavaliere si dice però ottimista: “Nella mia vita ho realizzato molti progetti che tutti consideravano impossibili.” Secondo il leader di Forza Italia, le varie sigle del centrodestra si presenteranno unite alle prossime elezioni, si fonderanno in un solo movimento e vinceranno per governare molti anni il Paese. Secondo Berlusconi, il partito unico dovrebbe essere la logica evoluzione di un trentennio di alleanze e strategie comuni. Poco importa che ci si sia divisi su una questione importante come l’appoggio al Governo Draghi: sono i valori comuni il vero motore dell’unione prospettata dal Cavaliere, per la quale egli si sta spendendo personalmente. Il problema è che nemmeno i valori fondamentali sono comuni.
Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia sono formazioni molto diverse tra loro, per storia come per cultura politica, e quindi anche per proposte. Se avessi la possibilità di intervistare Berlusconi sul tema, le domande che probabilmente gli rivolgerei sarebbero queste: questo ipotetico soggetto unitario del centrodestra sarebbe una forza europeista come Forza Italia o critica verso l’Unione come Fratelli d’Italia e la Lega? In Europa, sarebbe parte del Partito Popolare europeo e cercherebbe l’intesa con le destre più “liberali”, oppure sarebbe vicina alle destre sociali sovraniste? Il suo valore fondamentale sarebbe la libertà individuale oppure la sovranità nazionale? Sarebbe favorevole alla globalizzazione o cercherebbe di introdurre nuove forme di protezionismo? E quando si parla di valori cristiani, si intende l’autentico spirito evangelico, oppure i toni da crociata esibiti strumentalmente contro la libertà delle nuove famiglie o delle donne?
Sono tutte domande che difficilmente otterrebbero una risposta esaustiva, per il semplice fatto che quella risposta non c’è, nella misura in cui non c’è uniformità di vedute nel centrodestra (come non c’è nemmeno nel centrosinistra, del resto). Ma nemmeno negli Stati Uniti o in Gran Bretagna, dove i protagonisti della scena politica sono i due “mega-partiti” che si contendono il Governo, esiste uniformità di vedute dentro i partiti. Nel Partito Repubblicano c’è di tutto: dagli ultra-conservatori come Pat Buchanan fino ai libertari come Ron Paul; dalla cosiddetta “alt right” di Steve Bannon fino alla destra istituzionale e moderata di Mitt Romney. Una situazione analoga si registra nel Partito Democratico: si va dai neo-marxisti come Bernie Sanders fino ai liberal-democratici come Hillary Clinton; dai “social justice warrior” come Elizabeth Warren fino ai moderati come Joe Biden.
Dunque, perché ciò che funziona benissimo negli Stati Uniti non dovrebbe funzionare altrettanto bene in Italia? Anzitutto, perché il nostro sistema istituzionale è profondamente diverso. Negli Usa, il Presidente non ha bisogno della fiducia del Congresso: il potere legislativo e quello esecutivo sono separati in maniera molto più netta che da noi e sono reciprocamente indipendenti nello svolgimento delle loro funzioni. Uno fa le leggi e l’altro governa. Quindi, è del tutto irrilevante che la maggioranza parlamentare sia critica nei riguardi del Presidente: quest’ultimo continua comunque a governare, sebbene farlo con una maggioranza avversa potrebbe creare qualche ostacolo. Al contrario, in Italia il Governo dipende dal benestare del Parlamento, il che esclude che all’interno dei partiti ci possa essere spazio per diverse opinioni e sensibilità: né va della stabilità politica.
In secondo luogo, in Italia siamo troppo abituati al leaderismo: gli italiani accordano la loro fiducia a un capo, e non al partito o alle idee di quella formazione. All’interno delle stesse organizzazioni politiche, la linea è quella stabilita dai vertici: il dissenso viene tollerato fino a un certo punto, fin quando rimane silenzioso e remissivo, come una sorta di obiezione di coscienza. Ma quando comincia a diventare troppo rumoroso si viene messi alla porta. Viceversa, negli Stati Uniti ciascun rappresentante politico rimane libero di pensare e di agire come vuole: è infatti il consenso della base – e non quello di un direttivo – che conta. I candidati alla presidenza, al Congresso e al Governo dei vari Stati sono scelti attraverso le primarie, non dai vertici del partito.
Da ultimo, è profondamente diversa l’idea che abbiamo noi italiani di partito rispetto a quella che hanno gli americani: per questi ultimi, il partito è semplicemente una sigla, un insieme di principi astratti, un contenitore di sensibilità personali e collettive; per noi, invece, il partito è una organizzazione militante, una sorta di “famiglia” in cui è necessario che vi sia una stretta comunanza di intenzioni e di fini. Questo esclude che, all’interno dei partiti stessi, si possa lasciare troppo spazio a una ampia libertà di pensiero e di coscienza. Anche ammettendo che Forza Italia, Fratelli d’Italia e la Lega riuscissero a fondersi, il giorno dopo le varie “anime” si ritroverebbero a scontrarsi nel tentativo di prevaricare e di imporre la loro visione come egemone all’interno del partito appena fondato.
Al contrario, negli Stati Uniti le varie fazioni non lottano per il potere o per le candidature, ma per portare avanti le loro istanze e attirare il consenso della base verso di esse, nel rispetto di tutti gli altri di fare lo stesso. Spiace essere così scettici, ma è bene non farsi troppe illusioni: in Italia mancano le fondamenta culturali politica perché possano esistere “macro-partiti” sul modello anglosassone. Il protagonismo dei leader, la prassi odiosa del “centralismo democratico”, l’identitarismo radicale dei vari partiti, le diverse storie e tradizioni politiche dalle quali essi provengono, sono tutti fattori che giocano a sfavore di un simile progetto. L’esperienza fallimentare del Popolo della Libertà e quella difficoltosa e accidentata del Partito Democratico dovrebbero dirci qualcosa in questo senso.
di Gabriele Minotti