lunedì 22 marzo 2021
L’Italia non ha mai sperimentato provvedimenti autenticamente liberali. Piuttosto, le politiche implementate sono state caratterizzate da statalismo, assistenzialismo, socialismo, ridistribuzionismo, le quali hanno contribuito ad aumentare corruttele e clientele ed il numero dei poveri e dei disoccupati.
L’occupazione, sistematica e gramsciana di tutti i gangli culturali, scuola statale monopolistica, Università, mezzi di informazione, da parte della sinistra, ha impedito alla popolazione di dotarsi di una autentica cultura liberale e ha inoculato la convinzione di dover necessariamente dipendere dall’apparato statale, per la realizzazione e lo sviluppo della persona. Il modello imposto dalla sinistra è stato quello dello Stato sociale assistenziale, che parte dal presupposto che tutti i cittadini non siano in grado di badare a loro stessi e necessitino di assistenza attraverso il Welfare universalistico.
Ma ciò è profondamente sbagliato: la maggior parte dei cittadini è, in realtà, perfettamente in grado di badare a se stessa. Solo una piccola parte necessità di essere assistita, e ciò farlo attraverso un Welfare, diverso da quello attualmente adottato in Italia, ovvero serve realizzare un Welfare residuale. La differenza non è di poco conto, in quanto il Welfare universalistico ha un enorme impatto sulla spesa pubblica e, conseguentemente, richiede una enorme tassazione mentre il Welfare residuale richiede una spesa pubblica marginale e consente, quindi, di tenere bassa la tassazione, liberando le energie produttive insiste nella popolazione.
Ovviamente, una certa categoria di politici spinge per il Welfare universalistico, anche se non necessario, e preferisce creare quel bisogno indotto di assistenza, non corrispondente alle reali necessità, perché l’allargamento della spesa pubblica e del gettito di imposte e contributi, necessario per mantenerla, consente loro molta più intermediazione economica, l’allargamento delle clientele e della loro area di influenza e di potere. Insomma, il “poter mettere le mani” su una massa di denaro molto, molto più grande.
“Abbiamo il dovere di identificare alcuni gruppi di persone che hanno bisogno d’aiuto, ma il resto di noi deve assumersi la responsabilità di se stesso, e dobbiamo smettere d’essere una società così mentalmente sussidiata”. Così Margaret Thatcher alla fine degli anni Settanta, i cui timori sullo Stato sociale erano duplici. In primo luogo, lei e i suoi consiglieri pensavano che un generoso provvedimento collettivo, per la disoccupazione e la malattia, stava indebolendo la spinta al lavoro. In secondo luogo, temevano l’influenza corruttrice di quello de “lo Stato di Babbo Natale” nella classe media che, invece di affidarsi al duro lavoro e alla parsimonia, sarebbe stata tentata di affidarsi all’azione collettiva attraverso i sindacati e le distribuzioni statali. La Thatcher voleva ristabilire un quadro economico e giuridico e un ethos culturale, che premiasse quelli che considerava i valori “vittoriani” o “borghesi” della parsimonia, dell’autosufficienza e della carità tra tutte le classi, era determinata a ridurre le tasse e a ridurre il valore dei sussidi relativi al lavoro e a non offuscare l ‘importante distinzione tra ciò che gli individui guadagnano con i loro sforzi e ciò che ricevono dallo Stato.
L’obiettivo non era quello di abolire del tutto lo Stato sociale, ma di lasciare la sicurezza sociale come ultima risorsa per la minoranza più povera, i veri indigenti, i “les Eligibles” (poveri meritevoli, meritevoli di aiuto) rendendola irrilevante per coloro che avevano un reddito medio-alto, che invece avrebbero dovuto rivolgersi autonomamente ai fornitori privati. Margaret Thatcher ha visto l’individualismo come un fatto della vita: “Riconosciamo semplicemente la forza dell’interesse individuale nelle azioni degli uomini, in particolare nelle questioni economiche… non lo lodiamo né lo denigriamo”. Il marchio dell’individualismo di Thatcher era profondamente segnato dall’auto-aiuto e dalla carità sottolineati nell’educazione metodista. Era lungi dall’essere egoista o avido, ma era radicato nei valori dell’autosufficienza e dell’indipendenza radicata nel nonconformismo e nel liberalismo.
Quando la Thatcher ha detto che non esisteva “la società”, sosteneva che gli individui dovevano assumersi la responsabilità delle proprie vite e che era inutile dare la colpa a qualcosa di tanto nebuloso come “società” per i propri problemi. “È nostro dovere prendersi cura di noi stessi e poi anche aiutare a prendersi cura del nostro vicino”. Se il Governo prendesse il posto delle famiglie e delle comunità, le persone avrebbero meno incentivi a farlo da soli: il Governo dovrebbe quindi togliersi di mezzo e consentire alla naturale autosufficienza e carità di prosperare. Per dirla con Ronald Reagan, “dovremmo misurare il successo del Welfare da quante persone riescono ad uscirvi e non da quante riescono ad entrarvi”.
Per contrastare la società parassitaria di massa non basta attaccarla, ma è necessario proporre soluzioni alternative non ideologiche, pragmatiche ed efficienti. Per quanto i liberali classici siano per un sistema non assistenziale fondato sul libero mercato e sul merito, è evidente che in qualunque Paese evoluto anche tra i più liberisti, esiste una qualche forma di Welfare seppur minimo e residuale, cioè non universalistico, come in Usa o Australia o Nuova Zelanda che prevedono sussidi solo per i poveri assoluti, i cosiddetti les Eligibles.
È necessario proporre una riforma complessiva degli ammortizzatori sociali introducendo uno strumento sul modello della imposta negativa di Milton Friedman. Un minimo vitale per i cittadini italiani in situazione di indigenza uguale per tutti e pari al 50 per cento della deduzione di base del reddito delle persone fisiche, calcolata sulla base del livello di sussistenza indicati dall’Istat.
Ovviamente, la percezione di questo sussidio dovrebbe essere assoggettato al dovere di accettare qualunque lavoro lecito, proposto sul modello dello “Hartz IV” tedesco.
La spesa per l’assistenza sociale nel nostro Paese è enorme e soprattutto ingiusta, basti pensare che oggi persone che allo stesso modo non lavorano però vengono trattate ed assistite in modo macroscopicamente diverso. Oltre ad essere iniqua la spesa per ammortizzatori è anche inefficiente, erogata sotto forma di una miriade di diversi ed irrazionali ammortizzatori sociali: assegni familiari, 80 euro, Naspi, Cassa integrazione ordinaria e straordinaria, Cassa integrazione ai dipendenti Alitalia, contratti di solidarietà, bonus bebè, bonus studenti, bonus affitto, Dis-Coll, voucher baby sitting, pensione sociale, integrazione al minimo, reversibilità, il nuovo reddito di inclusione ed ora anche il reddito di cittadinanza. Per un totale di oltre 111 miliardi (40 miliardi integrazione al minimo + reversibilità, 18 miliardi Cig + disoccupazione, 36 miliardi assistenza sociale + 17 miliardi reddito cittadinanza).
Tutta questa miriade di erogazioni statali alle persone fisiche andrebbe eliminata, per sostituirla con un unico strumento di lotta alla povertà assoluta uguale per tutti e a parità di requisiti. Ciò eviterebbe discriminazioni, iniquità, inefficienze, cumuli, consentirebbe la razionalizzazione della spesa e migliori controlli. Innanzitutto, con una separazione a livello della contabilità pubblica separando a livello dei conti Inps la previdenza dall’assistenza, per fare chiarezza su spese molto diverse tra loro per finalità e modalità di finanziamento, dato che il nostro modello di Welfare prevede per finanziare le pensioni una tassa di scopo, i contributi sociali, mentre l’assistenza è finanziata dalla fiscalità generale.
La razionalizzazione di tutti gli ammortizzatori e le assistenze sociali consentirebbe più giustizia ed un notevole risparmio di spesa pubblica. Anche le case popolari, fatiscenti ma che ci costano moltissimo, dimostrano la inefficienza ed inefficacia dell’azione statale. Gli alloggi popolari vanno sostituiti con i contributi all’affitto e le occupazioni di stabili non devono assolutamente essere tollerate. Lo Stato ha ampiamente dimostrato di non essere in grado di gestire le cosiddette case popolari: non è in grado di garantirne la manutenzione ed i relativi oneri sono fuori controllo. Ad esempio, gli alloggi popolari sono un simbolo del degrado, dell’inefficienza, del malaffare, dell’incapacità di gestire gli immobili pubblici ed andrebbero dismessi sono soggetti ad occupazione illegale (il comune non conosce neppure chi siano i veri occupanti), fatte oggetto di scambio con chi non ne ha diritto, luoghi di attività illecite e di soprusi, prive di manutenzione, lasciate al disfacimento e all’incuria, fonte di costi abnormi gonfiati ad arte, per dipendenti, addetti, consulenti, avvocati, per utenze di energia ed acqua e finte manutenzioni.
Se il Comune volesse davvero aiutare gli indigenti, si dovrebbe attivare per erogare il voucher affitto, un contributo che l’avente diritto può spendere nel mercato immobiliare privato, per procurarsi un alloggio efficiente e funzionante, senza il rischio di vederselo occupato e senza dover attendere in lista per decenni. Il Comune risparmierebbe milioni di euro, assolvendo alla sua funzione in modo efficiente e, nel caso il richiedente decada dal beneficio per perdita dei requisiti, non deve più procedere agli sfratti (che non è in grado di fare) ma semplicemente cessare l’erogazione del contributo. Invece la sinistra propone un emendamento per assegnare il 15 per cento degli alloggi popolari a chi li occupa abusivamente, ovvero assegnarli a chi li detiene contro la legge. E questo mentre, al contempo, si cerca di impedire ai legittimi proprietari di poter disporre delle loro proprietà, che essi quindi detengono secondo la legge, prevedendo limitazioni e autorizzazioni agli affitti ed anche un ulteriore aumento della pressione fiscale sugli immobili, attraverso una possibile rivalutazione delle rendite catastali.
Per quanto si sia razionali e poco inclini al complottismo, è difficile non ravvisare un piano articolato per colpire la classe proprietaria e dei produttori di questo Paese, per annichilirla e trasferirne indirettamente i beni allo Stato affinché ne disponga a fini redistributivi. Così si contesta l’idea liberista, attribuendo colpe che in realtà afferiscono tutte al suo opposto: lo statalismo dirigista. In Italia i liberali hanno una grande colpa ed è quella di aver creato dei ristretti circoli politici autoreferenziali e di credere che gli italiani sappiano di liberalismo e di liberismo. Pensate che gli italiani conoscano il significato della curva di Arthur Laffer o della curva di Armey? Conoscano la differenza tra servizio pubblico e servizio statale? Conoscano la capacità di creare ricchezza del libero mercato e di quanto sia necessario rimuovere le inefficienze dei monopoli, oligopoli, la presenza di esternalità e di beni pubblici, l’informazione incompleta e/o asimmetrica? Di quanto sia importante la responsabilità individuale per poter perseguire fini diversi? Ovviamente no. È molto più semplice comunicare un sintetico e socialista “voi dateci il frutto del vostro lavoro, noi vi assisteremo e vi indicheremo il fine”. È per questo che nel nostro Paese gli statalisti hanno successo.
Ciascun liberale dovrebbe diffondere la consapevolezza che il massiccio intervento dello Stato nella vita economica e sociale non solo ne deprime la vitalità – inducendo nei cittadini una mentalità assistenzialistica, che mina l’impegno e la responsabilità individuali – ma costituisce anche una minaccia per la libertà in se stessa. Essere liberi significa, infatti, poter perseguire fini diversi; ma questi ultimi, per essere realizzati, necessitano sempre di mezzi economici. Se c’è un unico soggetto che controlla i mezzi (o la maggior parte dei mezzi), questo finirà inevitabilmente per controllare anche i fini. Il nemico del benessere e della libertà è lo statalismo. Si cerca di confondere le persone con varie etichette, “populismo”, “sovranismo” oppure “riformismo”, “progressismo”, “europeismo”, ma l’unico discrimine che rileva davvero è tra i liberisti chi vogliono lasciarvi liberi di intraprendere, di decidere i vostri fini e di disporre liberamente del frutto del vostro lavoro e gli statalisti che vogliono conculcarvi ogni iniziativa, imporvi la direzione e come disporre del vostro reddito.
Lo statalismo è subdolo, mascherato da aiuti benevoli e solidali che condurranno inevitabilmente alla povertà ed all’asservimento, si nutre di paure ed ignoranza, e le sue armi sono il redistribuzionismo e la intermediazione dell’economia, con i quali si appropria di tutti i mezzi, per decidere tutti i fini. Tenta di insinuare l’idea che il liberismo, cioè il liberalismo in economia, sia la causa dell’attuale crisi economica, mentre è vero esattamente il contrario: lo statalismo ha compresso le libertà economiche e d’impresa, condiziona le scelte dei consumatori e dei produttori, distorce ed indirizzate dai monopoli statali e dalla legislazione fiscale iniqua, settoriale e distorsiva.
Attraverso il liberismo, lo Stato è molto contenuto a vantaggio delle attività delle libere imprese e vige una bassissima regolamentazione delle attività dei privati da parte dello Stato, cioè questi sono liberi di agire e di intraprendere senza vincoli. Vi sembra questa la realtà attuale? Assolutamente no. In Italia lo Stato è onnipresente, opprimente, invadente: intermedia oltre la metà dell’economia sottraendola ai privati ed anche l’Unione europea è enormemente burocratica, regolatrice e dirigista e ridistribuzionista.
Se poi vi riferite al cosiddetto “rigore dei conti pubblici” anche qui la differenza è abissale. Nel liberismo il rigore di bilancio è finalizzato ad arginare e contenere l’ingerenza e l’invadenza dello Stato, limitandone la capacità di spesa cioè un rigore dei conti pubblici finalizzato a tenere bassa la spesa pubblica e di conseguenza tenere basse le tasse, la pressione fiscale. Al contrario, in Italia il rigore dei conti pubblici è stato finalizzato a mantenere un elevato livello di tassazione e pressione fiscale, che assicuri la libertà di azione dello Stato a danno del comparto privato. E nello statalismo cresce un finto capitalismo. Il capitalismo di relazione o clientelare (crony capitalism) è il vero cancro italiano: un sistema economico in cui il successo negli affari dipende da strette relazioni tra uomini d’affari e funzionari pubblici, che emanano leggi a loro favore, a discapito della libertà di impresa e della concorrenza, in cui si continua a investire i soldi, degli altri, nei progetti degli amici e non in quelli a più alta produttività. Su quale base si decide di erogare contributi a fondo perduto ad un settore economico e non ad un altro? Se il prodotto di un’azienda è necessario, utile o attraente, lo decide il mercato cioè il consumatore, non il Governo. Le piccole e medie imprese, che rappresentano invece il capitalismo meritocratico, devono sobbarcarsi il peso dell’eccesso di tasse, regole e burocrazia che serve proprio a mantenere e giustificare l’apparato dei funzionari pubblici amici del capitalismo clientelare (partecipate, cooperative). Un circolo vizioso mortale.
Qualunque movimento o partito politico che voglia smantellare questo schema, dovrebbe avere la vostra fiducia. Nel capitalismo di relazione il rapporto privilegiato con il Governo e i poteri forti permette ad alcune aziende di ottenere autorizzazioni, leggi ad hoc, erogazioni a fondo perduto, finanziamenti dalle banche, transazioni con il fisco. Ciò è reso possibile anche, grazie, ad una totale mancanza di trasparenza, la opacità favorisce il capitalismo di relazione. Il liberalismo sostituisce la cultura del sospetto e della diffidenza con quella della trasparenza: la trasparenza dello Stato è condizione che consente ai cittadini di poter esercitare il controllo. Invece nel sistema dello statalismo gli imprenditori privi “di relazione” possono anche crepare di mancate autorizzazioni, dinieghi di finanziamenti delle banche, assenza di infrastrutture, oppressione burocratica e fiscale
(*) Vicepresidente Consiglio nazionale Destra Liberale
di Elena Vigliano (*)