venerdì 19 febbraio 2021
Apprendo da un amico che Mario Draghi, in un’intervista a Die Zeit del 2015, avrebbe dichiarato di sentirsi un “socialista liberale”. È singolare che nella discussione politica attuale nessuno si sia chiesto, o abbia chiesto direttamente all’interessato, se le cose stiano così o se si tratti di una mera interpretazione giornalistica. La questione, di per sé poco rilevante, diviene però importante se pensiamo al fatto che Draghi è ora presidente del Consiglio e che, non essendo stato eletto né dai socialisti né dai liberali ed essendo stato indicato dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, come capo di un Governo non politicamente impegnato, la sua visione politica generale dovrebbe essere, e apparire, come neutrale per non dire tecnica. Apparentemente, infatti, la posizione di chi si dichiara socialista-liberale, senza peraltro rispettare la precedenza se non altro alfabetica dei due aggettivi, può apparire confortante, priva di attitudini conflittuali e dunque molto opportuna in una situazione come quella italiana attuale.
Tuttavia, le cose non stanno necessariamente così perché di fronte ad una crisi economica come quella che stiamo vivendo – dando per scontato un intervento più deciso e più chiaro in merito alla pandemia – tutto ci vorrebbe fuorché una politica che non sia né carne né pesce. Il termine socialista-liberale richiama alla mente le “convergenze parallele” di Aldo Moro e non promette alcunché di chiaro, né sotto il profilo dei fini ultimi della politica, né sul piano contingente delle ineludibili manovre da realizzare. D’altra parte, lo stesso Governo messo in piedi da Draghi esibisce una commistione che lo rende maggiormente simile ai Governi quadri o penta-partiti della cosiddetta Prima Repubblica che non ad un Governo orientato verso politiche di recupero precise e con precisione dichiarate. La cosa si è forse resa inevitabile in considerazione della natura della maggioranza e quindi dei numeri parlamentari, ma ciò sarebbe ragionevole se e solo se le crisi economiche si potessero risolvere, unicamente, con una ricetta nota e fondata su teorie economiche riconosciute da tutti i partiti come le sole in grado di essere efficaci.
Ma le visioni economiche dei partiti dell’attuale maggioranza non sono affatto omogenee, nonostante i modelli keynesiani sembrino essere largamente condivisi anche se, temo, abbondantemente e interessatamente equivocati. A causa delle pressioni populistiche di una parte della destra ma soprattutto delle sinistre nostrane con o senza stelle, e in considerazione della provenienza dottrinaria e professionale di Draghi, credo che l’aggettivo “socialista” si prospetti come più realistico che non “liberale” a meno che, come spero, dal 2015 ad oggi egli abbia modificato la sua posizione ideale in favore di un’economia libera e liberale. Se non fosse così, l’attualmente elevata reputazione del presidente del Consiglio potrebbe, nel contesto interno del Paese, disperdersi molto presto a causa di politiche poco diverse da quelle dei recenti Governi, lasciando il posto ad una disillusione quanto mai rischiosa, dato che la sua persona è stata presentata come una sorta di ultima spiaggia.
A questo infausto risultato potrebbe contribuire proprio la commistione che citavo sopra, la quale temo possa portare a misure economiche compromissorie laddove, invece, avremmo bisogno di indirizzi e azioni decisamente orientate. Se debbono essere keynesiane, che lo siano. Meglio una politica economica keynesiana decisa e robusta che l’ennesimo accordo policromo capace solo, alla fine, di lasciare scontenti tutti. Ma, per favore, senza usare l’aggettivo “liberale” come pura deferenza verso una dottrina se si ha in animo, poi, di ignorarla. Ad ogni modo, vedremo presto se la citazione di Camillo Benso conte di Cavour era solo un inchino letterario ad un grande liberale o qualcosa di più.
di Massimo Negrotti