mercoledì 10 febbraio 2021
“Il mio regno per un… drago!”. Meglio se più di uno, ovviamente. Insomma, come dice la canzone? “E venne un Mario Draghi”. Scherzi a parte, (ma poi non tanto), questa volta il Ribaltone (di bossiana memoria) della Lega è qualcosa di più serio. Anzi, di molto più radicale, visto che rimette in discussione un’elaborazione ventennale di sovranismo illuminato, passato persino per il setaccio grossolano di un’alleanza precocemente fallita con gli anti-Draghi per eccellenza. Quei grillini, cioè, che volevano (assieme ai Claudio Borghi-Alberto Bagnai) fare dell’euro un unico, indigesto boccone che ci avrebbe fatti finire fuori dall’Europa. Obiettivamente, la Lega (ex Nord) è finita come quel Pinocchio plasmato dalla pialla di Geppetto e reso vivente per la magia di una fata capricciosa. Però, occorre dare a Cesare quel che a quest’ultimo appartiene. Si immagini, cioè, se lo spettro dell’esproprio sovranista del potere burocratico-monetario di Bruxelles-Francoforte avesse avuto successo poco più di un anno fa, con le elezioni europee del 2019: che fine avrebbero fatto l’euro e i Trattati-capestro? Un terremoto politico, evitato per un soffio quando i Cinque Stelle cambiarono improvvisamente casacca e cavallo, salendo sul carro centrista e moderato di Ursula von der Leyen, mossa da allora denominata “metodo Ursula”. Improvvisamente, la tempesta terribile causata dal flagello della pandemia, lui sì davvero uguale per tutti, ha dato il giro di manovella che mancava a una Unione tenuta assieme dai cavilli di una burocrazia europea asfissiante e, tutto sommato, assolutamente inconcludente.
Così, Bruxelles e Strasburgo hanno emesso il primo vagito di un federalismo in fasce, cagionevole non si sa quanto e pronto, in caso di insuccesso, a fare harakiri appena tornata la normalità degli affari as usual, con la Troika in agguato delle cicale come l’Italia e con una Banca centrale europea (Bce) svelta a fare un passo indietro, per lasciare che le economie mediterranee post-pandemia e in crisi facciano pure default, in quanto tutte le risorse sane saranno chiamate a reggere l’Atlante di una concorrenza interamente sbilanciata a favore della Cina, con l’America in affanno che fa fatica a inseguire il Dragone asiatico. La posta in gioco per noi è chiara: o l’Italia ridiverrà una piccola locomotiva dello sviluppo europeo, a seguito di una iniezione di centinaia di miliardi di euro (seppure in gran parte concessi a debito e tassi quasi nulli sul lungo periodo), oppure i sani rimasti a correre e a concorrere con gli altri due giganti continentali faranno da soli, costruendo quella famosa Europa a due velocità che, inesorabilmente, ci farà scivolare più ai bordi dell’Africa che verso il benessere continentale. Il merito di Matteo Salvini è l’aver fatto da apripista, prima come… spaventapasseri, per allontanare il volo sempre più chiuso dei corvi della finanza speculativa internazionale, pronti a planare su quello che restava delle nostre riserve di… grano, e poi da aperturista post-sovranista, non appena l’Unione ha aperto adeguatamente i cordoni della borsa del Recovery, a suo e a nostro vantaggio.
Sul piano della più stretta contingenza, ovvero del prologo della formazione del Governo Draghi, la mossa del… Capitano sembra un ottimo lancio da pista di bowling, tale da far cadere tutti i birilli dei veti incrociati. Tanto che la sua conversione paneuropea se l’è persino intestata il segretario del Partito Democratico, il funambolico Nicola Zingaretti. Proprio lui che, per capirci, aveva malvolentieri accettato il passaggio della grossa e grassa rana gialla pur di arrivare alla fine della legislatura e, nel frattempo, tornare insperabilmente al potere con un formidabile gioco di prestigio, ingoiando il gigantesco rospo degli insulti feroci che il suo Partito si era scambiato, attingendo a un vocabolario macabro, con il Movimento di Beppe Grillo. Ma, in politica, grilli, rospi, rane e draghi sono argomenti utili a confezionare favole metropolitane alle quali, cioè, la gente è chiamata a credere più per amore del teatro dal vivo che per mera convinzione, avendo perso l’illusione che le cose un giorno cambieranno. Così, Matteo Salvini si dà il gomito (è proprio il caso di dire) con l’altro Matteo, il perfido Niccolò Machiavelli in do ristretto e fiorentino per modo di dire ma, obiettivamente, cervello fine e carattere ipertrofico che ha confezionato uno sgambetto da opera buffa al trio Lescano Luigi Di Maio-Giuseppe Conte-Nicola Zingaretti. In pratica, forse, il politico più odiato d’Italia dopo, evidentemente, l’altro suo sodale Matteo Salvini.
I due capi-partito (questo giornale l’aveva ben pronosticato parecchio tempo fa) non potevano che trovare un’intesa, più o meno segreta, per sgonfiare la rana gialla riprendendosi così un bel po’ di voti, migrati temporaneamente verso la protesta dei somari che volevano diventare re. Ed è così che il Pd si accomoda su entrambi, tenendo per di più in ostaggio Conte affinché sia lui a fare da donatore di sangue, estraendolo dal corpo stremato del Movimento, per un’alleanza elettorale che vedrà il Pd monopolizzare l’area di centrosinistra, espunta la componente centro-mediana di Matteo Renzi-Carlo Calenda-Emma Bonino, che potrà fare da ago della bilancia dopo le elezioni del 2023 (o prima, non si sa mai), purché non venga ritoccata la legge elettorale attualmente in vigore. Chi, invece, sta sui carboni ardenti, accesi dalla mossa a sorpresa della Lega a trazione Matteo Salvini-Giancarlo Giorgetti, è proprio l’ala sinistra-sinistra che rischia la scomparsa prematura, senza rimpianti da parte dei moderati.
L’elettorato leghista a Nord, con particolare riferimento alla sua componente confindustriale e manifatturiera, tira un sospiro di sollievo per essersi affrancata con Draghi dalla più sterile polemica antieuropea, ed è da sempre pronta con la sua efficienza e creatività d’impresa a cavalcare la tigre della ripresa economica favorita, verosimilmente, dalla spinta neo-keynesiana di Palazzo Chigi. Rimane la Giorgia (Meloni) furiosa la cui posizione, però, fa pensare a un gioco di sponda per drenare il voto di protesta, destinato a far pendere il piatto della bilancia elettorale a favore del centrodestra, in un futuro confronto bipolare con la piattaforma rinnovata del centrosinistra. Insomma: business as usual.
di Maurizio Guaitoli