giovedì 21 gennaio 2021
Il centenario della nascita del Partito Comunista Italiano non può essere una fiera della mistificazione, come molti eredi del comunismo stanno tentando di fare. Ne è un significativo esempio l’intervista di Massimo D’Alema per il docufilm intitolato La dannazione della sinistra: cronaca di una scissione, prodotto da Simona Ercolani e diretto da Cristian di Mattia, pubblicata, in estratto, su “la Repubblica” di ieri.
Alla domanda: “C’è una parola che a Livorno Turati oppone alla rivoluzione, rifiutando la violenza e la dittatura del proletariato: è il gradualismo […] Non aveva ragione?”, D’Alema risponde: “Mi lasci dire una cosa paradossale: in sostanza senza mai teorizzarla, questa è stata la politica del Pci, la sua costituzione materiale”. Non è un paradosso, è una mistificazione. Le cose non stanno in questi termini, intanto perché Turati per attuare una politica gradualista poneva in contrapposizione ai comunisti non due, ma tre punti essenziali: “Primo fra questi la violenza, che per noi non è e non può essere programma. […] Altro punto è la dittatura del proletariato, che per noi se è dittatura di minoranza è dispotismo […] se è dittatura di maggioranza è un evidente non senso, una contraddizione in termini, perché la maggioranza è la sovranità legittima e non può essere dittatura. Terzo punto di dissenso è la coercizione del pensiero, la persecuzione, nell’interno del partito, dell’eresia, che fu l’origine ed è la vita stessa del partito”.
Ecco nessuno di questi tre punti era accettato dai comunisti e non solo alle origini di quel movimento, ma per lungo tempo. La violenza fu praticata e codificata nel primo statuto del Pci, all’articolo 3: “Il proletariato non può infrangere il sistema capitalistico da cui deriva il suo sfruttamento senza l’abbattimento violento del potere borghese”. Questo principio fu coltivato e praticato per lungo tempo nel Pci, come è dimostrato dall’esistenza della “Gladio rossa” che faceva riferimento ad un prestigioso esponente della direzione comunista: Pietro Secchia.
Il Pci nel dopoguerra praticò la politica del doppiopetto, agendo nelle istituzioni, ma sempre pronto alle azioni violente. Già in piena resistenza antifascista i comunisti si preparavano a prendere il potere in Italia con la forza, tant’è che eliminavano i partigiani bianchi perché vedevano in loro gli antagonisti del dopoguerra. È con questa logica che venne attuato l’eccidio di Porzus. E da questa cultura ha origine il terrorismo rosso (i primi dirigenti delle Brigate Rosse erano iscritti al Pci, come ad esempio Alberto Franceschini). Sul secondo punto, la dittatura del proletariato, dittatura di una minoranza sulla maggioranza, il Pci si è riconosciuto in questa forma-Stato finché si è identificato nell’Urss, vale a dire per molto tempo, finché ormai non iniziava ad essere evidente il collasso sovietico. Sul terzo punto, la democrazia all’interno del partito: il Pci non ha mai ammesso il dissenso all’interno, tant’è che uno dei motivi della fuoriuscita della frazione comunista dal Psi fu il rifiuto da parte della maggioranza socialista di accettare la pretesa della minoranza comunista di espellere il padre del riformismo italiano, Filippo Turati. E si sa, dove erano al potere i comunisti, come venivano trattati i dissidenti. Il 27 novembre 1969, il gruppo dissidente del “Manifesto” (guidato da Aldo Natoli, Rossana Rossanda, Luigi Pintor e Lucio Magri) fu radiato dal Pci, ma avrebbero certamente fatto una fine ben diversa se il Pci fosse stato al potere e non all’opposizione in un Paese collocato nel contesto politico internazionale dell’Alleanza atlantica.
I comunisti attaccarono sempre con disprezzo i socialisti riformisti: Matteotti, assassinato dai fascisti, fu definito da Gramsci “un cavaliere del nulla”. Turati, quando morì a Parigi nel 1932, fu definito da Togliatti “nemico del proletariato” e, per arrivare ad anni più recenti, D’Alema sa bene anche come furono violenti gli attacchi contro Saragat, definito “voltagabbana e traditore della classe operaia” e come fu criminalizzato Bettino Craxi. E il dato inquietante è che, anche dopo il crollo del comunismo, l’odio degli eredi del Pci nei confronti del socialismo riformista e democratico permane fortissimo. La logica e la cultura comunista è così radicata da continuare, fino ad oggi, con altri nomi e sotto altre forme. D’Alema docet.
di Pier Ernesto Irmici