Politica da Recovery, spese da pazzi

venerdì 8 gennaio 2021


“E facciamoci sempre riconoscere!”. Così salmodiava un vecchio detto auto-denigratorio in stile tardo pompeiano. Per capire l’aria che tira (in Europa), è sufficiente citare il prologo di Le Figaro, a proposito dei 200 miliardi del Recovery Fund destinati all’Italia ed equivalenti all’11 per cento del nostro Pil: “Ma davvero la generosità europea è compatibile con la democrazia italiana?”. Grazie a questa manna (di nuovo debito per 127 miliardi con conditionalities ancora più stringenti del nuovo Mes, mentre solo 40 miliardi dei restanti sono veri... regali!), insomma, l'Italia è “sull’orlo di una crisi di nervi”. Quindi, nel futuro molto prossimo, da qui al 2026 quando le suddette risorse dovranno essere state tutte impegnate e spese, in base a precisi e dettagliati cronoprogrammi, è possibile che il Bel Paese non passi le forche caudine dei beceri frugali d’Europa, Olanda in testa a tutti, e si ritrovi più povero e indebitato che mai. Infatti, ricordando il non fulgido esempio di Don Abbondio (“chi il coraggio non l'ha, non se lo può dare” motu proprio), i furbetti del Governo in carica sono pronti a presentare alla Commissione non una visione strategica, ma soltanto una mesta minestrina riscaldata, riesumando progetti già finanziati o cantierabili in modo da utilizzare il nuovo credito per pagare le cose vecchie e tenere così a freno l'indebitamento pubblico. Ancora una volta, davanti alle grandi occasioni della Storia, ci troviamo con una sorta di Esecutivo travicello che fa sempre un passo avanti e due indietro, non avendo né una strategia-Paese a medio-lungo raggio, né una macchina amministrativa efficiente per fissare e mantenere la barra in una direzione prestabilita.

In effetti, i precedenti non ingannano. A conti fatti, nel periodo 2014-2020 l’Italia ha speso meno del 40 per cento dei fondi strutturali che le erano stati attribuiti. Del resto, come nota (bontà sua!) Tito Boeri, il nostro Paese vanta il record negativo di 30mila (trentamila, sic!) centri di spesa autonomi, che tutto sanno fare (a beneficio delle loro clientele sparse), tranne applicarsi in progetti infrastrutturali e nelle complesse procedure d’appalto relative, per la manifesta incapacità di valutare in modo corretto il rapporto costi-benefici. Quindi, con che cosa si può pensare di realizzare le nuove, fondamentali politiche di modernizzazione se non si riesce nemmeno a condurre in porto quelle a costo zero, come le riforme di Pubblica amministrazione, fiscalità e giustizia? Perché, poi, non si esce dalla schiavitù rimanendo incatenati! Del resto, che cosa resta da dire, se una buona parte dei fondi stanziati per la transizione energetica e la digitalizzazione si traducono in semplici agevolazioni fiscali per gli investimenti da parte di privati? Nondimeno, suona altamente sospetto l’interesse di Matteo Renzi per un pieno coinvolgimento degli apparati ministeriali, decapitando (pur a ragione) una faraonica struttura di missione (ormai abbandonata!) a forma piramidale, incardinata presso la presidenza del Consiglio, che vedeva un triumvirato di ministri al vertice, coadiuvato a livello immediatamente inferiore da sei manager cui faceva capo uno stuolo di 300 consulenti. Uno schema che sembrava fatto apposta, in effetti, per commissariare ministeri e Pubblica amministrazione centrale e decentrata verticalizzando l’intero processo decisionale verso la figura di Giuseppe Conte, dominus della strategia complessiva dell’utilizzo delle risorse del Recovery Fund. Il sospetto fondato che nemmeno Renzi stia operando per il bene del Paese, e non invece di se stesso e del proprio cerchio magico, deriva dal fatto che, riportando a livello di partiti e dei dicasteri l’intera partita del Recovery (come vorrebbe Italia Viva), tornerebbero in gioco e resterebbero determinanti i grand commis di Stato, nominati senza merito comparativo dagli ultimi governi di centro sinistra che, di fatto, controllerebbero in modo diretto e indiretto i nuovi, consistenti flussi di risorse finanziarie messe a nostra disposizione dall'Europa. Non è per nulla convincente, infatti, rimettere nella partita enti come quelli regionali che hanno dato pessima prova di sé nella gestione della pandemia da Covid. Bisognerebbe fare, pertanto, un discorso chiaro sull'unicità delle decisioni e sulla verticalizzazione della catena di comando, al momento in cui si parla di progetti di portata strategica e intergenerazionale a livello nazionale e, soprattutto, della loro esecuzione. Il nodo della tremenda inefficienza della Pubblica amministrazione e delle procedure fin troppo lente e farraginose che presiedono alla “messa a terra” dei progetti non può essere risolto nel breve termine, se non con una normativa speciale che vada ben oltre lo schema della ricostruzione del Ponte Morandi.

Ovvero, per ciascuno dei megaprogetti riguardanti le grandi filiere della riorganizzazione della sanità sul territorio, della digitalizzazione e del risparmio energetico, vanno messi a punto strumenti straordinari (bypassando i contenziosi dei Tar attraverso organismi ad hoc di arbitrato imparziale, agili e flessibili) e responsabilità adeguate che riuniscano le grandi professionalità della parte pubblica e di quella privata, per garantire il buon fine dei progetti e la loro esecuzione nei tempi previsti. Se fossimo molto astuti, finanzieremmo le linee ad alta velocità (trasversali e longitudinali) facendo passare i tracciati per territori devastati dalla speculazione selvaggia, accompagnandoli con una imponente campagna di demolizioni, espropri, congrui risarcimenti, risanamento e ricostruzione in loco. Se fossimo un Paese serio, avremmo dovuto approfittare del Covid per azzerare i mille centri di spesa decentrata della sanità, centralizzando acquisti comuni e imponendo il rispetto di rigorosi standard delle prestazioni. Soprattutto, se avessimo avuto una leadership forte, avremmo riformato e centralizzato il reclutamento di personale medico sanitario ricorrendo a elenchi unici nazionali, graduatorie aperte e a scorrimento, in modo da valorizzare il merito e le esperienze sul campo, affidando il tutto a un’autorità plenipotenziaria, esterna alla politica e designata dal Parlamento con la maggioranza qualificata dei due terzi. Se fossimo stati, cioè, ciò che mai saremo. Appunto.


di Maurizio Guaitoli